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Francia, vietato il burqa nei luoghi pubblici

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La Francia vieta il burqa. È arrivato oggi il via libero definitivo del Parlamento al progetto di legge che mette al bando l’uso del velo integrale islamico in tutti i luoghi pubblici, come strade, piazze, negozi, parchi, scuole, ospedali e mezzi di trasporto.

Le donne che indossano il burqa rischiano una multa di 150 euro, alla quale si può aggiungere anche uno stage di “educazione civica”. Chi obbliga una donna a coprirsi completamente il volto può invece essere punito con un anno di carcere e 30 mila euro di multa. Condanna che raddoppia se è coinvolta una minorenne (due anni di prigione e 60 mila euro di multa).

Il testo, fortemente voluto dal presidente Nicolas Sarkozy, è stato approvato dalla grande maggioranza dei membri del Senato, dopo il voto positivo dell’Assemblea nazionale lo scorso luglio. La Francia diventa così il primo Paese dell’Unione europea ad adottare un tale provvedimento, nonostante il parere negativo del consiglio di Stato e il disagio espresso dalle comunità musulmane. Il divieto, che non entrerà in vigore prima della primavera 2011, deve però ancora ottenere il via libera della Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi nelle prossime settimane.

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Fini: giusta la decisione francese di vietare il burqa

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La decisione della Francia di vietare il burqa è “non solo giusta ma opportuna e doverosa in ragione del valore attribuito dalla nostra carta costituzionale alla dignità della donna, che non puo’ essere sottoposta a violenze o a comportamenti indotti da parte di gerarchie diverse da quelle previste dalla legge”. Lo ha detto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, nel corso della presentazione del libro di Massimo Angelilli, “Quale costituzione per i cittadini stranieri” a Palazzo Marini.

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Partiamo dal velinismo prima che dal burqa

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Per una che si batte per uno stato laico e per l’emancipazione femminile come me, teoricamente dovrei essere contro il burqa e favorevole alla legge passata in Francia, cui hanno seguito gli apprezzamenti di Fini e del Pdl. “Liberiamo le donne oppresse dal velo”, dicono lor salvatori.

Sì, effettivamente sono contro il burqa, nel senso che non penso lo indosserò mai. Ma sono contro il divieto di portarlo.

Ritengo che questa misura non sia altro che un’ulteriore imposizione nei confronti di queste donne. Dapprima, infatti, per contesto culturale, sociale e familiare viene loro imposto di mettersi un velo in testa. In alcuni paesi è legge, in altri è scelta – e qui andrebbe verificato quanto libera. Poi queste cambiano paese, oppure nascono in un paese diverso dai valori e tradizioni impartiti fra le quattro mura di casa loro. Là fuori, a un certo punto, viene stabilito per legge che queste donne devono denudarsi e stravolgere la loro immagine nel mondo. Ma loro a questa immagine non sono abituate, hanno sempre creduto che devono coprirsi il capo, che è così che devono abbigliarsi.

E quale pensate possa essere la conseguenza della misura voluta da lor salvatori? Semplice: queste donne non usciranno più. Non più a loro agio nel mondo, troveranno come unico scampo quello di rinchiudersi in casa, ancora più recluse e sottomesse di prima al volere dell’uomo in casa, unico loro riferimento.

Allora, siamo sicuri che questa misura sia così benvoluta dagli uomini (e donne tipo la Santanché) di destra in nome dello stato laico e dell’emancipazione della donna, o non è per caso un ulteriore tassello di quella lotta all’Islam che da anni ormai mina i fondamenti delle nostre liberal democrazie? E lor salvatori non hanno pensato alle reazioni del mondo islamico di fronte a leggi dell’Occidente che, giuste o no, vogliono negare elementi della loro cultura?

Anche a me piacerebbe vivere in un mondo in cui le donne non debbano ogni volta sentire il peso (e talvolta l’umiliazione) di un mondo governato dagli uomini. Peccato però che vivo in un mondo in cui tette e culi delle veline sono servite ai pasti e la prostituzione in politica è stata dichiarata legittima. Non sarebbe meglio partire da lì?

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La paura del velo

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In questi giorni si fa un gran parlare del divieto di portare il velo, sia in Francia, che in Italia. Vi sono addirittura proposte di legge che prevedono il divieto di indossarlo in pubblico.

Un problema serio, insomma. Un problema nato probabilmente dalle inevitabili difficoltà di integrazione tra culture diverse, ed acuito (involontariamente?) da un certo modo di fare politica, che porta ad avere paura del diverso e, quindi, a riavvicinarsi a chi ci deve “difendere”da questo “diverso”, cioè la politica.

Diverse mamme, è notizia di cronaca, hanno protestato pubblicamente contro un’altra mamma (di religione musulmana) che aveva portato i figli a scuola indossando il burqa, spaventando i loro cattolicissimi pargoli.

Cosa ne penso?

Ebbene si, lo confesso, anche io sono stato uno di quei bambini traumatizzati dal velo.

Tra i miei ricordi di infanzia c’è ancora la paura di quei volti, dove si vedeva solo una parte del viso delle donne che lo indossavano e dove i capelli sparivano sotto il tessuto . Erano veli di un colore scuro: nero, grigio, grigio cenere. Non saprei con esattezza. Anche l’abbigliamento di queste donne era tutto scuro, e lungo fino a terra.

Ero piccolo, ma lo ricordo ancora bene.

Quando entravo in quel posto mi chiedevo dove fossi finito. Un luogo che mi sembrava così lontano, così diverso dalla mia casa, dal mondo che mi circondava quotidianamente al di fuori di quelle mura.

Sì, non posso negarlo: avevo una gran paura delle donne con il velo. Così innaturali, così forzate, così diverse, ai miei occhi di bambino. Probabilmente doveva sembrarmi la personificazione femminile dell’uomo nero, che rappresentava l’incarnazione immaginifica del male, almeno per i bambini della mia generazione.

Ci ho messo molto tempo ad abituarmi, ma quel timore, in fondo non è mai passato in tutti gli anni in cui sono dovuto entrare in quel posto.

È per questo che, a distanza di anni, in occasione del dibattito politico in corso, mi chiedo, con la maturità di un giovane padre alla soglia dei 40, se sia giusto che i bambini debbano essere costretti a vedere donne abbigliate tutte di scuro, con abiti fino a terra, e con il velo che copre in parte il volto, rendendo più difficili i loro sonni.

È davvero necessario portare quel velo?

Me lo chiedo seriamente. Me lo chiedo da giurista. Me lo chiedo da padre. Me lo chiedo da cittadino

Questione di religione, si potrebbe dire.

Ma viene prima la paura dei bambini o una simile regola religiosa?

Difficile dare una risposta. Comunque, è un dato di fatto: tutte quelle donne con il velo mi spaventavano e ne avevo paura. Comprendo quindi i timori degli adulti che sostengono la necessità di questo divieto, anche se, in fondo, mi sento un po’ confuso, e non riesco a maturare una vera decisione.

Dove andavo da bambino?

In un asilo di suore, nella cattolicissima Roma.

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Papa: “A volte l’uso del preservativo può essere giustificato”

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Sono sorprendenti le anticipazioni del libro “Luce del mondo” che raccoglie la conversazione tra Benedetto XVI e il giornalista e scrittore tedesco Peter Seewald. “In alcuni casi l’uso del preservativo può essere ‘morale’ – si legge nei brani anticipati dall’Osservatore Romano – Vi possono essere singoli casi giustificati, ad esempio quando una prostituta utilizza un profilattico, e questo può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole. Tuttavia, questo non è il modo vero e proprio per vincere l’infezione dell’Hiv”, afferma il Papa. La sessualità non va comunque banalizzata: “Concentrarsi solo sul profilattico vuol dire banalizzare la sessualità, e questa banalizzazione rappresenta proprio la pericolosa ragione per cui tante e tante persone nella sessualità non vedono più l’espressione del loro amore, ma soltanto una sorta di droga, che si somministrano da sè”. “Perciò – afferma ancora – anche la lotta contro la banalizzazione della sessualità è parte del grande sforzo affinchè la sessualità venga valutata positivamente e possa esercitare il suo effetto positivo sull’essere umano nella sua totalità”.

Nel libro, il Pontefice si dice anche profondamente turbato dallo scandalo pedofilia: “Vedere il sacerdozio improvvisamente insudiciato in questo modo, e con ciò la stessa Chiesa Cattolica, è stato difficile da sopportare”. “I fatti non mi hanno colto di sorpresa del tutto. Alla Congregazione per la Dottrina della Fede mi ero occupato dei casi americani. Avevo visto montare anche la situazione in Irlanda. Ma le dimensioni comunque furono uno shock enorme”, dice il Papa.

Benedetto XVI affronta anche i temi caldi relativi al rapporto tra Islam e cattolicesimo, dal burqa alla tolleranza religiosa: “Se le donne islamiche indossano il burqa volontariamente, non vedo perché glielo si debba impedire”. Parlando delle moschee, il papa spiega che i “cristiani sono tolleranti e in quanto tali permettono anche agli altri la loro peculiare comprensione di sé. Ci rallegriamo del fatto che nei Paesi del Golfo arabo (Qatar, Abu Dhabi, Dubai, Quwait) ci siano chiese nelle quali i cristiani possono celebrare la Messa e speriamo che così accada ovunque. Per questo è naturale che anche da noi i musulmani possano riunirsi in preghiera nelle moschee”.

Il papa torna a ribadire il ruolo positivo di Pio XII: “Bisogna riconoscere che Pio XII è stato uno dei grandi giusti e che, come nessun altro, ha salvato tanti e tanti ebrei”. Su Pacelli Ratzinger afferma: “Pio XII ha fatto tutto il possibile per salvare delle persone. Naturalmente ci si può sempre chiedere: ‘Perchè non ha protestato in maniera più esplicita’? Credo che abbia capito quali sarebbero state le conseguenze di una protesta pubblica”.     “Sappiamo – aggiunge il Papa – che per questa situazione personalmente ha sofferto molto. Sapeva che avrebbe dovuto parlare, ma la situazione glielo impediva”. “Ora, persone più ragionevoli ammettono che Pio XII ha salvato molte vite”.

Quanto alla preghiera del Venerdì santo nella messa in latino, Benedetto XVI ha affermato che “era tale da ferire gravemente gli ebrei”, ma ora, dopo le modifiche apportate e dopo aver tolto i riferimenti alla “conversione degli ebrei”, le polemiche di “una serie di teologi” contro il Papa “sono avventate e non rendono giustizia a questo fatto”.”Nell’antica liturgia – spiega – mi è sembrato necessario un cambiamento. Ho pensato che fosse necessario dire che Cristo è salvezza per tutti. Non esistono due vie di salvezza. Cristo è anche il Salvatore degli ebrei, e non solo dei pagani.

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può essere giustificato”
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Il Belgio non ha ancora un governo Ma approva la legge anti-burqa

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Appena entrata in vigore e già messa in discussione con un ricorso in tribunale. La legge belga che proibisce alle donne musulmane di indossare in luoghi pubblici il velo integrale, sia nella versione burqa che in quella più comune del niqab, è stata approvata dalla camera bassa del parlamento nell’aprile del 2010 ma solo ieri, appunto, è entrata ufficialmente in vigore dopo il via libera del senato.

La legge, che un anno fa fu votata praticamente all’unanimità, con appena due voti contrari, stabilisce che per ragioni di sicurezza, in luoghi pubblici come parchi o strade, è vietato indossare abiti che nascondano l’identità di una persona. L’applicazione quotidiana, al di là di casi “occasionali” come manifestazioni politiche di gruppi estremisti, riguarda in particolare le donne musulmane che usano il velo integrale. Così come nella vicina Francia, il primo paese europeo a vietare il niqab in pubblico, la questione ha più che altro un valore simbolico, visto che secondo le stime della stessa polizia belga, sono appena poche decine le donne musulmane che usano questo tipo di copertura, su un totale di almeno mezzo milione di cittadini musulmani in tutto il Belgio. La pena per chi non rispetta il divieto è una multa di 137 euro e, in caso di recidiva ripetuta, fino a sette giorni di prigione.

In Belgio, peraltro, come già in altri paesi e regioni europei, dalla Danimarca alla Catalogna, esistono diversi divieti locali, approvati da singoli consigli municipali (Anversa, tra gli altri) che, sempre per motivi di sicurezza, proibiscono l’uso di indumenti, maschere comprese, che rendano irriconoscibili.

Due donne, comunque, hanno già annunciato ricorso contro la legge nazionale. La loro avvocata, Ines Wouters ha spiegato che dal loro punto di vista, “la legge è una sproporzionata intrusione dello stato nella sfera dei diritti individuali come la libertà di espressione e di religione”. Secondo l’Agence France Press, l’avvocata Wouters ha già fatto ricorso alla Corte costituzionale belga chiedendo anche di sospendere l’applicazione della legge in attesa del giudizio sulla sua costituzionalità.

Nonostante l’ampio consenso parlamentare, così come in Francia, la legge solleva molti dubbi, specialmente tra le associazioni per la difesa dei diritti umani e naturalmente tra quelle musulmane. Il ricorso dell’avvocata Wouters spiega che l’effetto della legge sarà quello di impedire alle donne musulmane che vogliono usare il niqab di uscire di casa. Quindi, proprio le donne che la legge dice di voler proteggere rischiano di essere da essa discriminate.

E anche se la motivazione della legge riguarda la sicurezza pubblica, non può sfuggire l’ironia della situazione: il parlamento di un paese che oltre un anno dopo le elezioni non è ancora riuscito a formare un governo, riesce però ad approvare all’unanimità un testo dall’alto valore simbolico ma dagli effetti pratici molto dubbi e controversi, come per esempio ha fatto più volte notare Amnesty International che mantiene una posizione molto critica verso interventi legislativi di questo tipo.

Lo aveva detto, con il suo stile provocatorio, il filosofo Slavoj Zizek a proposito del dibattito francese: “Non si può non notare come il presunto attacco universalista al burqa nel nome dei diritti umani e della dignità delle donne finisca in una difesa del particolare stile di vita francese”, scrive Zizek nel capitolo iniziale di Vivere alla fine dei tempi (Ponte alle Grazie). “Questo è dunque il motivo dell’ansia causata dal volto coperto: esso ci mette direttamente a confronto con l’abisso dell’Altro-Cosa, con il Prossimo nella sua dimensione sconcertante». Non è un buon segnale, per il Belgio diviso tra Fiamminghi e Valloni, né per la capitale europea Bruxelles, che partiti divisi praticamente su tutto riescano a ritrovare un qualche consenso solo quando si tratta degli “altri”.

di Joseph Zarlingo

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Ma approva la legge anti-burqa
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Lettera dall’Afghanistan. Kabul dicembre 2020

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Caro Giovanni,

dovresti vedere la gioia degli afghani quando, dopo anni di bombe e massacri, finalmente raggiunta la democrazia, possono accedere al pagamento dell’Irpef sulla prima casa e andare, col ticket da 50 euro, all’ospedale da campo per la risonanza magnetica.

Il burqa in Afghanistan non si indossa più, le donne liberate dalle forze Isaf, ora si coprono il capo e il volto col tanga e sono accompagnate a far la spesa dai marines. Anche qui la benzina un giorno aumenta di 1 euro, l’altro cala di 5 centesimi.

Le grandi opere vengono finalmente realizzate, come ad esempio l’autostrada Herat-Kandahar a ben cinque corsie, compresa quella per il somaro. Nell’ambito delle grandi opere, a Herat è stato inaugurato da Berlusconi e la Minetti il centro estetico “Il gluteo” per la liposuzione, che darà lustro al territorio richiamando moltissime donne dall’Europa per il ritocchino; centro attraverso il quale la  presidenza del Consiglio creerà “Potenza della democrazia”, il primo concorso di Bunga Bunga del Medio Oriente.

Ma non è finita qui: è in costruzione la ferrovia Jalalabad-Kabul che traforando cento chilometri di montagne, porterà pomodori, cetrioli e patate nella capitale. E’ commovente vedere il tripudio di felicità della popolazione davanti a questa titanica impresa. Se penso a quello che è successo in Italia per un tunnel di cinquanta chilometri in Val di Susa, mi vien da piangere. Ma ora i soldati italiani per Natale, davanti a un cespo di insalata (ciò che è rimasto in Italia da mangiare dopo i costi della guerra e della politica) potranno dire “Io c’ero” e anche nel giorno dei morti diranno “Sì, lui c’era”.

La raccolta differenziata ha avuto sviluppi clamorosi, oltre l’umido ci sono i bidoni per le mani, per i piedi, per i nasi e i capelli, tutto viene riciclato. Un grande inceneritore per cadaveri rimasti intatti, che darà luce a tutta Kabul, verrà inaugurato dal ministro Frattini. Brunetta invece, che era stato incaricato di snidare i fannulloni di stato, a Kabul, spaventato da un missile terra-terra passatogli a 5 centimetri dal naso, è tornato in Italia. Bersani, che era stato invitato a organizzare l’opposizione nel parlamento afghano, dopo aver saputo che chiedendo i rimborsi elettorali ti tagliano la gola, ha desistito ed è tornato a Roma, con D’Alema che non ha accettato incarichi perché in Afghanistan ha scoperto che non c’è il mare.

Gli americani continuano come sempre a bombardare in qua e in là, perché per loro, le guerre non finiscono mai, ma ogni volta che sbagliano bersaglio chiedono scusa, anzi sorgerà prossimamente, per massacri ed affini, il Ministero del Perdono, presieduto da Rosy Bindi con il generale Petraeus.

Le arti figurative, data la polvere, stanno avendo uno sviluppo eccezionale, i Morandi sono andati alle stelle e si è manifestata con successo una nuova tendenza estetica: il “Polverismo”, dove il quadro e la scultura vengono letteralmente polverizzati con bombe artigianali e fucili mitragliatori.

Insomma è tutto un proliferare di iniziative senza tregua, tanto che il Pil afghano, dopo l’apertura della Borsa e la coltura intensiva del papavero da oppio, è schizzato alle stelle, facendo invidia alla Cina e all’India. Del resto l’Afghanistan è l’unico paese senza debito pubblico, anche perché qui, se i Talebani beccano quei coglioni delle agenzie di Rating, la Borsa gliela riempiono loro.

Dall’alba di un nuovo giorno

Tuo Sandro

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Torino, la procura chiede archiviazione per donna egiziana che indossa il burqa

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Le musulmane possono indossare il velo integrale. È la lettura data dalla Procura di Torino in merito a una denuncia presentata a febbraio da un italiano contro un’egiziana di Chivasso che indossa il niqab. Non ci sarebbe nessun pericolo pubblico, né sarebbe stata violata la legge Reale sul “travisamento”, perché la donna si lascia identificare e perché predominano i principi costituzionali a tutela dell’espressione religiosa. Sulla questione del velo integrale sono questi i cardini giuridici ribaditi dal procuratore aggiunto Paolo Borgna, a capo del gruppo sulla sicurezza urbana, che ha chiesto al giudice per le indagini preliminari di archiviare il procedimento. Una decisione che potrebbe rianimare le polemiche sul “burqa”.

Era l’11 gennaio scorso quando una egiziana di circa 35 anni residente a Chivasso, è stata notata in un negozio da un geometra che il 9 febbraio successivo ha fatto una denuncia ai carabinieri. Stando a quanto riferito ai militari l’uomo aveva visto una donna “completamente coperta da un sudario scuro”, un capo che presentava “solo una fessura per gli occhi”. In lei aveva riconosciuto la stessa persona già incontrata e fermata dai carabinieri il 11 agosto 2010 perché passeggiava in città coperta da un niqab. Per il geometra la donna aveva una carta di identità “irritualmente rilasciatale dall’Ufficio anagrafe di Chivasso, non conforme alla legge” perché sulla foto del documento (di cui l’uomo aveva una fotocopia, “procuratosi chissà come”, si chiede il pm) aveva un semplice velo, un hijab, che lascia scoperto il viso. Lo stesso uomo aveva denunciato la signora in un’altra occasione. Il primo giugno 2010 aveva inviato una mail al direttore dell’Asl di Chivasso e alla responsabile del consultorio ginecologico lamentandosi della presenza della signora nella struttura qualche giorno prima. Eppure, nella sala d’attesa dell’Asl, l’egiziana si era scoperta il volto e non si è mai sottratta ai controlli d’identità.

Quella prima denuncia era arrivata sul tavolo del pm Raffaele Guariniello che, nella richiesta di archiviazione, sottolineava come l’articolo 5 della legge 152/75 (la legge “Reale”, nata nel periodo delle contestazioni e del terrorismo) punisca chi usa caschi protettivi o “qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo”. Nel caso di Chivasso la cittadina straniera “indossava il burqa (un niqab, in realtà, ndr) in ossequio, secondo un’interpretazione diffusa, ai principi della religione islamica: e dunque l’applicazione del divieto imposto dalla legge deve coniugarsi con il rispetto dell’articolo 8 della Costituzione”. Inoltre “la motivazione religiosa della condotta contestata” può essere considerata uno dei “giustificati motivi previsti dal Legislatore”. Guariniello prima e Borgna ora riconoscono il diritto tutelato dall’articolo 19 della Costituzione a manifestare “in qualsiasi forma” la propria fede e il rispetto dei limiti del “buon costume”.

In più per il procuratore aggiunto Borgna non c’è niente di anomalo nella carta d’identità della donna perché i tratti somatici e il viso sono visibili e riconoscibili. Inoltre una circolare del Ministero dell’Interno datata 1995 consente nei documenti l’uso di foto con copricapi “religiosi”, come i veli delle suore cattoliche, non equiparabili all’uso di un qualsiasi cappello. E forse proprio questo l’elemento su cui faceva leva  la denunciata., a cui i servizi demografici del Comune avevano negato il rilascio del documento d’identità per via delle fototessere in cui lui portava un caschetto da cantiere: “Non è verosimile pensare che indossi abitualmente e sistematicamente tale casco, trattandosi di un dispositivo di protezione antinfortunistico”, scrive il pm. Il provvedimento ha subito suscitato le reazioni del centro-destra. Per Maurizio Marrone, consigliere comunale del Pdl, “Grazie alla procura, Torino diventa Torinistan”, mentre per l’eurodeputato leghista Mario Borghezio: “Torino rischia di diventare la capitale europea del burqa”

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Donna in burqa e nel Veronese il sindaco leghista firma subito ordinanza

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Concamarise, il più piccolo comune della Bassa Veronese (1000 abitanti, il 10% dei quali stranieri), dice stop al burqa nei luoghi pubblici. A firmare l’ordinanza che vieta in tutto il territorio comunale, nelle aree pubbliche o aperte al pubblico poste nelle vicinanze di scuole, asili, giardini e uffici, di indossare “un abbigliamento – si legge nell’atto amministrativo – che renda difficoltosa l’immediata riconoscibilità della persona”, il sindaco leghista Cristiano Zuliani. Un personaggio molto attivo nella piccola comunità della Bassa, già balzato agli onori delle cronache per aver svolto – in risposta ai tagli del governo – l’attività di accompagnatore di bambini nelle scuole del territorio, sorvegliante e autista di scuolabus.

A onor del vero la parola burqa nel testo dell’ordinanza non compare, ma è lo stesso primo cittadino, dalle pagine del quotidiano L’Arena, a togliere ogni dubbio sul fatto che la necessità di adottare questo provvedimento gli sia stata suggerita da alcuni cittadini preoccupati dopo l’avvistamento in paese, nei giorni scorsi, di una donna interamente coperta dall’abito di tradizione musulmana. Una visione non frequente da quelle parti, dove più o meno si conoscono tutti. “A essere avvistata – dichiara Zuliani su L’Arena – è stata una sola donna, integralmente coperta dal burqa ma, considerate le segnalazioni dei cittadini e il fatto che in passato la stessa non lo indossava, ho ritenuto di intervenire per prevenire la diffusione di questa tradizione invisa ai residenti”. Ma il sindaco non vuole passare per razzista e intollerante e precisa quali sono i veri intenti del provvedimento: “Non si tratta di intolleranza religiosa, anzi, l’ordinanza mira proprio a facilitare l‘integrazione attraverso il rispetto di alcune regole”, senza dimenticare l’aspetto della sicurezza: “Ritengo giusto – spiega ancora il primo cittadino veronese – che le persone nei luoghi pubblici possano essere riconosciute”. L’ordinanza, peraltro, mette tutti d’accordo in paese. Anche i consiglieri di minoranza, infatti, non hanno nulla da ridire sull’iniziativa del sindaco e parlano di ordinanza generica prevista dalla legge italiana che “ci trova d’accordo – sostiene sempre su L’Arena Ivan Rossetti, capogruppo di minoranza – perché finalizzata a soddisfare le richieste dei cittadini e utile per una migliore integrazione”. I trasgressori saranno multati con una sanzione di 500 euro.

Non è la prima ordinanza di questo tipo che viene adottata in Italia dai sindaci. Per citare qualche esempio, nel novembre del 2009 Gianluca Bonanno, sindaco leghista del Comune di Varallo, in provincia di Vercelli, ha emanato un provvedimento che vieta su tutto il territorio comunale di indossare burqa e niqab, il velo islamico che lascia scoperti gli occhi. Il primo cittadino piemontese ha giustificato l’ordinanza dicendo che “occorre prevenire per favorire una vera e sana integrazione contingentata”. Qualche giorno prima del provvedimento, il sindaco leghista aveva acquistato, a spese del comune, un ingente quantitativo di crocefissi da regalare a chi ne avesse fatto richiesta.

Più recente il caso di Sesto San Giovanni, grosso comune alle porte di Milano. Nel febbraio del 2011, nell’ex roccaforte rossa lombarda, è stata votata quasi all’unanimità una mozione anti-burqa presentata da un consigliere leghista. Altri provvedimenti del genere anche nel Comune di Montegrotto Terme, in provincia di Padova. Ha fatto scalpore, poi, nel settembre del 2010, la protesta di un gruppo di mamme di Sonnino, in provincia di Latina, preoccupate dal fatto che i loro bambini non volevano più andare all’asilo, dopo aver visto una donna interamente coperta dal velo islamico accompagnare il proprio figlio. E ancora a Mantova, nel novembre del 2010, un funzionario della Motorizzazione Civile ha costretto una ragazza maghrebina a togliersi il velo per sostenere l’esame di guida. Temeva che la donna nascondesse un auricolare. 

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Venezia, bambino afghano di 5 anni trovato in un trolley al porto

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Nei trolley dei viaggiatori le forze dell’ordine trovano di tutto. Ma quando un finanziere, in servizio al porto di Venezia, ha aperto una piccola valigia 60×30 non immaginava che vi avrebbe trovato un bambino. Assim, cinque anni, afghano, doveva raggiungere la Germania con il suo accompagnatore, che prima si è definito suo padre, poi suo zio. L’adulto, come riportano alcuni quotidiani tra cui il Corriere della Sera e il Gazzettino, è stato arrestato anche dopo aver mostrato le fotografie della famiglia del piccolo che ha riconosciuto le persone nelle immagini. Il cucciolo d’uomo è stato affidato ai servizi sociali e sarà accolto in una famiglia veneziana in attesa che la magistratura minorile chiarisca tutti gli aspetti di questa vicenda. Certo è che il bimbo ha fatto un lunghissimo e pericoloso viaggio.

“E’ una storia incredibile – dice Luca Lo Presti, presidente della Pangea una onlus che da dieci anni è presente nel paese dei talebani -. In Afghanistan non è solo l’infanzia a essere negata, ma la via stessa. Fa impressione pensare a una madre che infila un figlio in una valigia per farlo scappare dalla guerra. Magari gli sorride per dirgli stare buono e risponde che no, lei non può entrare nella valigia. Fa rabbia pensare che ogni giorno l’Italia spende milioni in una missione che non ha portato pace; l’Afghanistan è diventato il primo esportatore di oppio e la situazione del popolo non è certo migliorata”.

Questa onlus in dieci anni ha “salvato” sei mila donne afghane e con loro i loro figli; grazie al microcredito hanno aperto panetterie, fanno scarpe o cuciono vestiti, qualcuna è diventata parrucchiera. “Il nostro ufficio a Kabul costa 40 mila euro all’anno, aiutiamo 400 donne e 50 bambini con quei milioni della missione potremmo rifare l’Afghanistan” dice Lo Presti. Di storie come quella di Assim il volontario ne ha viste tante: pullman di bambini che passano il confine con l’Iran: “Quelli belli magari finiscono in adozioni internazionali, gli altri nella prostituzione o in mano ai trafficanti di organi”. Assim ha viaggiato attraversano l’Iran appunto fino in Turchia per poi imbarcarsi in Grecia, forse sempre chiuso in quella scatola con un forellino che gli ha permesso di respirare. “Un bambino afghano sa tanto della vita – commenta Lo Presti – ma non è giusto che accada. Queste persone, donne uomini e bambini, scappano da situazioni disumane. Noi lì cerchiamo di portare pace e con i soldi di un solo giorno di missione potremmo farlo ancora di più. Il futuro dei minori passa anche attraverso le mamme perciò noi cerchiamo di aiutare le donne. E quando una si è alzato il burqa e ci ha chiesto di insegnarle a essere bella abbiamo pensato di fare dei corsi, che sono stati tenuti da due parrucchiere di Padova e Pistoia. Anche da qui passa l’emancipazione della donna e la salvaguardia dei loro figli”. Dopo l’apertura a giugno di una casa a Kabul la onlus punta ad aprirne un’altra per “dare la stessa opportunità alle 110 donne e ai loro bambini, che sono state selezionate dal nostro staff afghano” e per questo è partita una campagna di raccolta fondi con regali solidali. 

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Se per Buttiglione e la Binetti l’urgenza è vietare il burqa

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L’Italia è alle prese con una crisi istituzionale senza precedenti. L’economia arranca. L’emorragia di posti lavoro continua. La disoccupazione, specie tra i giovani, ha raggiunto livelli drammatici. Fasce di popolazione sempre più ampie stanno scivolando nella povertà.

Eppure per Rocco Buttiglione e Paola Binetti, rieletti grazie al ripescaggio, l’urgenza assoluta non è aggredire, con opportune iniziative legislative, almeno una parte dei problemi che stanno facendo affondare il Paese. Per i due cattolicissimi parlamentari la vera priorità è un’altra: vietare il burqa.

Al punto che sul tema i due parlamentari hanno depositato negli scorsi giorni, con notevole lestezza, un progetto di legge ad hoc.  Che non prende le mosse dall’opportunità di difendere la dignità delle donne musulmame dall’uso di una pratica discutibile, come è quella del burqa.

Per i due esponenti politici il burqa va bandito invece per ragioni di sicurezza e ordine pubblico. Perché, come si legge nell’introduzione all’iniziativa legislativa che richiama alcune circolari interpretative del Ministero dell’Interno, indossare accessori come il turbante, il velo, il chador  è  generalmente legale. A condizione, però, che permettano di identificare e rendere ben visibili i tratti del viso.  Il burqa, che nasconde volto e persona di chi lo indossa, sarebbe dunque vietato.

Il “grave” problema, sta poi, ad avviso della Binetti e di Buttiglione, nel fatto che l’applicazione del divieto “è incerta”. Perché delegata ai singoli sindaci e comuni e comunque, “anche nel caso di identificazione da parte degli operatori dell’ordine pubblico, deve essere conseguente a una motivazione oggettiva di urgenza e di pericolo”.

“In questa proposta di legge – scrivono i due parlamentari nelle note introduttive – si vuole ribadire l’orientamento italiano al multiculturalismo, costituzionalmente garantito, la libertà di professare la propria religione e di esplicitarla anche con indumenti che palesino il proprio culto, ma nel rispetto della sicurezza di uno Stato laico, consapevole di un’integrazione possibile e necessaria, oggi più di ieri, a cui l’Italia non deve e non vuole rinunciare. Indossare il burqa lasciando il volto scoperto sembra un buon modo per integrare e rispettare le culture religiose di ognuno senza perdere di vista la necessità di tutelare e garantire la sicurezza di tutti.”

Di qui il divieto, esplicitato all’articolo 1 della proposta di legge, di usare, in luogo pubblico o aperto al pubblico, “qualunque mezzo che travisi e renda irriconoscibile la persona senza giustificato motivo”.

Si può concordare, come dissentire dalla iniziativa. Ma perché tanta urgenza?

Evitando di prendere troppo sul serio la cosa, vogliamo azzardare questa risposta-burla: il vero obiettivo del progetti di legge non sono le donne musulmane, bensì Beppe Grillo. Che più volte si è fatto (non) vedere, indossando una sorta di passamontagna versione tech.  Il capo di M5S rischierebbe fino a sei mesi di arresto, oltre ad un’ammenda da 300 a 600 euro, se dovesse passare la legge congegnata dalla Binetti e da Buttiglione. Forse dunque, nella loro testa, è anche questo un modo per far fuori dalla scena politica la figura sempre più ingombrante di Beppe Grillo.

 

 

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Pakistan, arriva la “vendicatrice con il burka” che lotta per i diritti delle donne

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Il burka è considerato da molte donne occidentali simbolo di costrizione e oppressione. Forse da oggi qualcosa potrebbe cambiare. Il cantante pop, compositore, musicista e produttore anglo-pakistano, Aaron Haroon Rashid ha creato un cartone animato, chiamato “Burka avenger” ossia “La vendicatrice con il burka”, per spiegare l’importanza dell’educazione femminile e sdoganare i preconcetti legati all’uso del velo integrale.

In Italia si parla del Pakistan solo per i disordini afghani o per atti di violenza. Nell’ottobre del 2012 la giovane quindicenne Malala Yousufzai è divenuta, suo malgrado, portavoce di una situazione che colpisce gravemente il sistema educativo pakistano. Sostenitrice dell’importanza dell’educazione per le donne (secondo le statiche dell’Onu e del governo pakistano tre quarti delle giovani donne non hanno accesso alle scuole primarie) è stata quasi uccisa da un colpo di pistola sparato da un commando di talebani convinti che la ragazzina non rispettasse la sharia

Forse ispirato da questo fatto Haroon ha pensato di creare non solo un cartone animato ma un intero progetto che include gadget, videogiochi, un supporto a comunità locali a favore dell’educazione femminile. La trama del cartone animato è intrigante. Una giovane insegnante di scuola elementare, orfana sin da piccola, viene adottata da un insegnante di arti marziali. Il padre adottivo la educa all’antica arte (inventata) del “takht kabaddi”: un mix di combattimento creativo con penne, matite e libri più una serie di evoluzioni acrobatiche. Una sorta di disciplina ninja adattata a uso scolastico. Di giorno insegnante, di notte vendicatrice mascherata per combattere i soprusi, difendere i deboli e diffondere l’importanza dell’istruzione.

Un immagine dal cartone animato "Burka avenger"

La figura del difensore mascherato non è nuova. Spesso la loro nascita è coincisa con momenti critici della storia di una nazione. Basti pensare a tutti gli eroi della Marvel: Batman, gli Xmen, Ironman, tutti personaggi che hanno “servito” la comunicazione nazionale americana durante e dopo la guerra mondiale. Di recente gli eroi della Marvel, in coincidenza con la crisi economica americana che ha messo in ginocchio milioni di cittadini, sono riapparsi per rilanciare il modello a stelle e strisce. Allo stesso modo l’idea dell’eroe mascherato anche in Pakistan diventa portatore di valori positivi: così “Burka avenger” è il primo, forse non l’ultimo, esempio di comunicazione nazionale per bambini.

Il programma è visibile in rete gratuitamente e il suo creatore prevede di lanciarlo in visione in tutto il mondo islamico. Come sarà accolto il progetto dagli islamici più conservatori? Dal punto di vista mediatico è già un successo, visto che anche il Washington Post ha riportato una lunga analisi del cartone animato, dibattendo sulla sua utilità e validità.

Una giovane insegnante elementare nel distretto pakistano di Swat, Sobia Chaudry ha dichiarato al quotidiano online The diplomat: “Chiaramente Haroon ha fatto una scelta attenta di vestire una donna con quello (il burka) che è stato comunemente criticato dalla stampa liberale. Con questo potente strumento, un cartone animato in lingua urdu (la lingua nazionale del Pakistan e lingua ufficiale dell’amministrazione nazionale indiana, ndr) che mostra le avventure di una comune insegnante, Haroon usa la sua particolare immagine per combattere la visione pubblica generale. Un progetto fantastico”.

La scelta di legare un tema forte come l’educazione delle giovani donne a un capo di abbigliamento tradizionale come il burka potrebbe essere una scelta vincente. La comprensione che gli occidentali hanno di alcune pratiche islamiche – come quella di coprirsi il capo con lo hijab in Iran o il burka in Pakistan, Afghanistan ed Emirati arabi – è spesso lacunosa perché priva di una visione d’insieme del mondo islamico. Partendo dal presupposto che qualunque cambiamento in una società tradizionale con un forte attaccamento alla religione deve partire da piccoli passi, questo cartone animato, distribuito in tutto il mondo islamico, potrebbe essere il primo mattone per costruire un nuovo islam, liberale e aperto alla crescita culturale e spirituale della donna. 

Twitter @EnricoVerga

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Spagna: il burqa tra le Ramblas

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Non è una schedatura ma ne ha tutta l’aria. I Mossos d’Esquadra, la polizia che opera nella regione autonoma catalana, potrà raccogliere informazioni sulle donne islamiche che vestono il burqa o il niqab in luoghi pubblici.

La questione è antica. Già la Francia, dove risiede la prima comunità musulmana d’Europa, qualche anno fa avviò la discussione sulla relazione tra il capo di abbigliamento femminile e la funzione di riconoscimento propria dei documenti di identità.

Poi nell’aprile del 2011 arrivò a bandire il velo integrale comminando multe alle trasgreditrici e pene detentive fino a un anno. Nelle banlieue di Parigi, non poche volte, il provvedimento è preso a pretesto per manifestare inquietudini sociali: lo scorso luglio la solerzia di un poliziotto che aveva multato una donna col velo integrale ha scatenato una rivolta sociale, con assedio al commissariato di un quartiere dormitorio nella periferia ovest della capitale.

La Grand Chamber della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, chiamata a pronunciarsi da una giovane musulmana multata per aver indossato il velo, dovrà decidere se la legge francese viola o meno i diritti umani.

Ora la Catalogna sembra seguire i cugini al di là dei Pirenei per superarli e andare oltre. Si discute di iniziative legislative trasversali che, sul modello francese, vorrebbero introdurre il divieto per il burqa in pubblico. Intanto, da qualche giorno, unità dei Mossos d’Esquadra hanno avuto disposizione di serrare i controlli, tra le ramblas e nei locali pubblici, sulle donne con velo. La polizia dovrà conoscere l’identità di quei volti nascosti dai tessuti, acquisire dati sui mariti, sulle famiglie.

Tutto nel nome della sicurezza nazionale, o regionale verrebbe da dire. Gli ambienti investigativi assicurano che non ci saranno violazioni dei diritti fondamentali, non ci sarà una schedatura (sarebbe la prima di carattere “politico” basata su un capo di abbigliamento), né si darà luogo alla costituzione di un database fondato sulle scelte religiose. Viene da chiedersi: e le informazioni immagazzinate dove finiranno?

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Canton Ticino, referendum sul burqa: vincono i sì. Vietato il velo integrale

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Gli elettori del Canton Ticino hanno approvato l’iniziativa che vieta la dissimulazione del volto in pubblico. La legge anti-burqa, secondo una proiezione della Radio Televisione della Svizzera Italiana, è stata votata dal 65% dei ticinesi. Il Canton Ticino è il primo cantone svizzero a vietare l’uso del velo religioso nei luoghi pubblici. Gli elettori sono stati chiamati a scegliere se inserire un nuovo articolo nella Costituzione cantonale con cui si vieta “di nascondere il volto nei luoghi pubblici e in quelli aperti al pubblico” oppure bocciare la proposta e lasciare inalterata la Carta. “Nessuno può dissimulare o nascondere il proprio viso nelle vie pubbliche e nei luoghi aperti al pubblico (ad eccezione dei luoghi di culto) o destinati ad offrire un servizio pubblico – si legge nel testo del quesito – Nessuno può obbligare una persona a dissimulare il viso in ragione del suo sesso”. Organizzazioni islamiche svizzere e Amnesty International hanno preso posizione contro questo progetto. 

Esultano dall’Italia i parlamentari della Lega Nord. “Complimenti agli amici del Canton Ticino – scrive su facebook Nicola Molteni – Adesso anche da noi si voti la stessa proposta di legge della Lega”. Matteo Bragantini aggiunge: “E’ una straordinaria vittoria del buonsenso per due motivi: il primo è che nessuno, per questioni di sicurezza, dovrebbe andare in giro a volto coperto e il secondo trova radici nel rispetto della donna. E’ una battaglia di civiltà”.

Durante la stessa giornata di voto, secondo le proiezioni, gli svizzeri hanno anche bocciato di nuovo la proposta di eliminare la leva obbligatoria. La misura è messa al voto per la terza volta in quasi 25 anni. A proporre la misura partiti pacifisti e di sinistra, nonostante gli svizzeri si siano già espressi in modo contrario nel 1989 e nel 2001. Secondo l’emittente pubblica Srf, che cita l’istituto di rilevazioni gfs.bern, il 73% dei votanti respingerebbe l’abolizione. Il governo svizzero ha invitato i votanti a bocciarla, in controtendenza a molti Paesi europei. Il servizio militare è obbligatorio per gli uomini tra 18 e 34 anni, mentre le donne possono servire in modo volontario. Ogni anno le reclute impegnate per 18-21 mesi sono circa 20mila.

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De Burka


Violenza sulle donne: l’Afghanistan e l’incubo della lapidazione legalizzata

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Il 25 novembre  leggo che Human Right Watch, organizzazione che monitora l’applicazione dei diritti umani nel mondo, denuncia l’intenzione da parte dello Stato afgano di inserire nella riforma del proprio codice penale la lapidazione per le donne accusate di adulterio.

La mia mente vola velocemente a 14 anni fa, alle scene raccapriccianti per cui si erano distinti i Talebani lapidando donne in varie parti del paese, e allo stadio di Kabul, dove al tempo si svolgeva lo “spettacolo” davanti ad una folla di uomini, bambini, donne in burqa; lo stesso stadio dove oggi si va a correre, si gioca a calcio, e si svolgono le competizioni di Buskaschi.

Ho passato tre giorni con questo pensiero-nube chiedendomi “Ma come è possibile?”.  Ho rimescolato dentro di me le storie che mi hanno raccontato in tanti anni le donne afgane, storie in cui la violenza è quotidiana e permanente, in un paese in cui le possibilità di ottenere giustizia da parte dello Stato sono minime, e dove il rispetto in famiglia è troppo spesso un risultato da raggiungere faticoso e in continua costruzione, mai dato per scontato!

Ma oggi una buona notizia, almeno spero rimanga tale. “Non inseriranno la lapidazione nel codice penale e sai perché?”- mi dice Shukria Barakzai, parlamentare afgana durante la pausa in una conferenza in cui è stata invitata in Italia – “perché per l’articolo 7 della Costituzione Afghana è vietato.

Tiro un sospiro di sollievo, per il momento, fino a prova contraria. “Se non abbiamo le leggi non possiamo neanche pensare di modificare le pratiche tradizionali per farci rispettare!”, mi diceva una decina di ani fa una donna impegnata nella ricostruzione della società civile afgana. “Ecco perché il lavoro va fatto con le istituzioni come con le persone.”

E in effetti in un paese come l’Afghanistan il lavoro da fare dal punto di vista della discriminazione delle donne continua ad essere un dato di fatto. Lo testimonia la composizione stessa del sistema giuridico: circa 20.000 giudici per oltre 25milioni di abitanti, di cui neanche 200 sono magistrate donne.

La loro dislocazione nel territorio afghano la dice lunga sulla situazione vissuta da tutte le donne: le magistrate sono presenti in cinque province su 34 sulla base dei dati Unama e sono così suddivise:  10 a Balk, 5 a Herat, 2 a Takhar e Baghlan, tutte le altre 17 a Kabul.

Davanti alle “prove di recupero dei valori talebani” nell’apparato statale afgano da parte di ministri con il beneplacito dei parlamentari e non solo, oggi più che mai, per superare l’impasse e non far ricadere la metà della popolazione nelle condizioni di 14 anni fa, conta il peso positivo che possono giocare le relazioni e gli aiuti internazionali dei Paesi che sostengono a suon di denari il processo di ricostruzione dell’Afghanistan.

Un esempio per tutti lo ha dato un ministro del Regno Unito che, dopo la notizia del 25 novembre, ha chiamato il presidente Karzai per ribadire che la condizione posta al governo di Kabul per ricevere aiuti dal suo Paese è rispettare un chiaro impegno verso il contrasto alla violenza sulle donne in Afghanistan.

Questa vicenda è solo uno dei tanti esempi della sfida da affrontare nel Paese ancora oggi. Soprattutto perché permane la preoccupazione da parte delle organizzazioni di donne afgane di un colpo di mano dei conservatori fondamentalisti sull’inserimento della lapidazione nel codice penale.

A maggior ragione si deve oggi rafforzare il ruolo vigilante della società civile afghana e internazionale e si devono moltiplicare le azioni e i programmi rivolti alla promozione dei diritti umani e della partecipazione delle donne nella vita economica e culturale, al contrasto alla violenza domestica  e dei matrimoni forzati e precoci, per cercare di garantire il diritto ad una esistenza dignitosa per ogni donna, bambina, bambino e uomo, come quelli sostenuti da Pangea e da altre organizzazioni non governative.

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Santanchè, 4 giorni di arresto per protesta anti burqa. “Trattata come un black bloc”

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Daniela Santanchè, processata a Milano per aver organizzato senza autorizzazione una protesta anti burqa nel 2009 durante la preghiera di fine Ramandan, è stata condannata a quattro giorni di arresto e 100 euro di ammenda convertiti in 1100 euro di ammenda. Il reato contestato è manifestazione non autorizzata. “È proprio vero, la legge è uguale per tutti. Oggi mi hanno trattato come un militante dei centri sociali, un No Tav, un black bloc” dice la parlamentare di Forza Italia.  Il 20 settembre 2009, l’allora deputata del Movimento per l’italia, organizzò un sit in alla cerimonia di chiusura del Ramadan senza avvisare il questore. Condannato anche l’egiziano che l’aggredì durante un alterco a 2500 euro multa.

Il giudice Maria Luisa Balzarotti ha dichiarato la sospensione condizionale della pena. Per il suo aggressore è stato disposto anche il pagamento delle spese processuali e il risarcimento dei danni all’onorevole di Fi per un totale di 10.000 euro. 

Il pm aveva chiesto per la pitonessa un mese di arresto e 100 euro di multa. L’accusa aveva quindi invocato 2 mila euro di multa per l’egiziano che quel giorno aggredì la parlamentare. L’uomo, Ahmed El Badry, accusato di lesioni, sferrò un pugno allo sterno alla deputata provocandole lesioni giudicate guaribile in venti giorni. Durante la cerimonia la parlamentare guidò una protesta mentre all’interno della struttura circa tre mila musulmani si erano riuniti per la tradizionale preghiera e per i festeggiamenti. 

“È una sentenza vergognosa” secondo la deputata che “certamente” fare ricorso in appello. “Se ci fosse bisogno di una conferma a proposito di come va la giustizia in Italia, ecco la sentenza contro l’onorevole Daniela Santanchè, condannata a quattro giorni d’arresto per aver civilmente manifestato contro il burqua, vera prigione in cui stanno rinchiuse donne rese schiave anche in Italia” dice afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia.“Esprimo a nome mio e di tutti i deputati di Forza Italia la solidarietà, senza se e senza ma, all’onorevole Santanchè. Mi domando: chi è l’estremista? Lei o il Tribunale che l’ha condannata?”.

Durante il processo un agente della Digos raccontò che la deputata era arrivata sul posto con al seguito una ventina di attivisti con tanto di cartelloni e aveva insistito con un altro poliziotto perché obbligasse le donne musulmane che entravano nell’edificio a scoprirsi il volto. A due di loro aveva detto di abbassarsi il velo. Una richiesta che, secondo il testimone, avrebbe provocato la reazione di alcuni uomini della comunità islamica, in particolare di un gruppetto che ”l’aveva minacciata di morte e insultata” con uno che “brandiva un cartello stradale”. 

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Burqa, Strasburgo dà ragione alla Francia: “Il divieto non viola i diritti umani”

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La Corte europea dei diritti umani ha dato ragione alla Francia, confermando che la legge che vieta di nascondere integralmente il viso – e di fatto di indossare il burqa – non viola il diritto alla libertà di religione né quello al rispetto della vita privata. 

Questa la sentenza definitiva di Strasburgo in risposta a caso avviato da una 20enne francese, secondo cui la misura viola la sua libertà religiosa e di coscienza. Al contrario, secondo i giudici l’obiettivo che si pone la legge francese, ossia quello di promuovere l’armonia nella società, è legittimo. Accettata quindi la tesi anti-burqa del governo secondo cui  “il volto gioca un ruolo importante nelle interazioni sociali”.

La Francia era stata il primo Paese europeo a vietare di indossare il velo integrale islamico in tutti i luoghi pubblici, quando a settembre 2010 il Parlamento aveva dato il via libera definitivo al progetto di legge contro l’utilizzo del burqa in luoghi pubblici come piazze, negozi, strade, parchi, scuole, ospedali e mezzi di trasporto. Progetto di legge che era poi entrato in vigore l’11 aprile del 2011. 

Strasburgo però non ha accettato la motivazione secondo cui la legge sarebbe stata introdotta per assicurare la sicurezza pubblica in quanto un divieto totale di niqab e burqa non può essere considerato “necessario in una società democratica”. Il governo, infatti, avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato imponendo l’obbligo di mostrare il viso in caso di controlli d’identità. La Francia viene quindi in parte bacchettata dai togati, che ritengono che emanare leggi come quella in questione possa contribuire a rafforzare  stereotipi e intolleranza contro alcuni gruppi sociali.

Profondamente appoggiato dall’allora presidente Nicolas Sarkozy (da oggi in stato di fermo per traffico di influenze) il testo di legge prevede una multa di 150 euro e la frequenza obbligatoria di uno stage di “educazione civica”.  Rischia fino a un anno di carcere e 30mila euro di multa chi è considerato responsabile di aver obbligato una donna a coprirsi il volto; multe e ammende che raddoppiano, nel caso di una minorenne.

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Parigi, coro dell’Opera “caccia” una turista col burqa: “O se ne va lei o noi”

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Era seduta in prima fila all’Opéra di Parigi, coperta dal burqa, per assistere a La traviata di Giuseppe Verdi insieme a suo marito. Ma alcuni componenti del coro l’hanno vista e hanno minacciato lo “sciopero”: se non se ne fosse andata, non avrebbero cantato. Quindi, tra il primo e il secondo atto, la turista musulmana è stata accompagnata alla porta d’uscita del teatro. Un episodio che risale allo scorso 3 ottobre, ma che è stato reso noto solo questa settimana. “Sono stato avvisato durante l’intervallo – ha spiegato il vicedirettore dell’Opéra Bastille, Jean-Philippe Thiellay – Alcuni membri del coro mi hanno detto che non avrebbero cantato se non si fosse trovata una soluzione. È la prima volta che succede”.

Dopo che la direzione dell’Opéra è stata avvertita, un addetto alla sicurezza ha ricordato alla signora e al suo compagno, due turisti di un Paese del Golfo, le disposizioni francesi sul divieto di portare il velo integrale nei luoghi pubblici, chiedendo alla donna di scoprire il volto o di lasciare la sala. La coppia, che sembra ignorasse l’esistenza di questa legge, ha deciso di andarsene senza nemmeno chiedere il rimborso del biglietto che, secondo quanto riportato dal sito dell’Opéra di Parigi, costava 231 euro a persona. 

Dopo che la storia è rimbalzata sui principali giornali francesi, la direzione del teatro ha chiesto ai suoi dipendenti di fare più controlli all’entrata, mentre il ministero della Cultura è stato costretto a inviare una nota per ricordare a musei e teatri nazionali come la legge francese vieti di portare il burqa o il niqab nei luoghi pubblici, in modo da evitare che questi episodi si ripetano. Votato l’11 ottobre 2010, il testo “anti-burqa” prevede che “nei luoghi pubblici nessuno possa portare abiti che nascondono il volto”, come maschere, passamontagna, o velo islamico integrale. Pena una multa di 150 euro e un corso di educazione civica. Ammesso invece il foulard che non copre il viso.

Una legge che si differenzia da quella del 2004, che vietava invece l’esibizione di segni religiosi a scuola e si applicava a elementari medie e liceo, ma non alle università e agli istituti superiori. Recentemente altri episodi simili a quello dell’Opéra di Parigi hanno sollevato polemiche in Francia. Una studentessa della Sorbona, ad esempio, era stata espulsa da un corso universitario perché portava il velo (anche se non integrale). Un sindaco di destra aveva invece impedito a due mamme col velo islamico, anche in questo caso non integrale, di partecipare a un concerto estivo. Infine l’eurodeputata francese di centrodestra, Nadine Morano, spesso protagonista di controverse dichiarazioni sulla religione islamica, aveva sollevato polemiche sui social network per aver chiesto a una donna di togliere il burqa alla stazione del treno.

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Islam, chi reagirà all’odio in Rete contro la cronista che racconta i convertiti?

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Qualche giorno fa una giovane e rigorosa cronista del Corriere dell’Alto Adige di Bolzano, Silvia Fabbi ha realizzato una intervista con un italiano che ha deciso di convertirsi all’Islam. Non occorre un luminare dei media per comprendere che, comunque la si pensi, si tratta di un argomento di attualità e di grande rilevanza, sia nella realtà nazionale, sia in quelle locali. Ascoltare e far ascoltare queste voci significa anche consentire alla pubblica opinione di comprendere la sostanziale differenza tra chi di converte e sceglie la lotta armata e chi, come accade nella la stragrande maggioranza dei casi, sceglie un’altra fede per altre ragioni.

Sia come sia, Silvia Fabbi ha compiuto il suo dovere di cronista; forse proprio questo ha scatenato i peggiori umori degli intolleranti e dei razzisti di turno; con l’aggravante che essendo l’autrice una donna, nei suoi confronti gli squadristi di turno si sono sentiti anche autorizzati ad utilizzare quel linguaggio “da fogna” che, per altro, ben fotografa il loro animo. Il loro livore ha trovato ospitalità sulla rete. Uno dei più invasati ha scritto: “Ci auguriamo che venga stuprata, poi massacrata, infine decapitata, chi difende i Musulmani merita questo...”

Per altro la danza era stata aperta da uno certo signor Sergio Armanini, già candidato della Lega a Merano che aveva scritto: “Ma perché non le mettiamo un burqa e non la facciamo andare in Nigeria, al centesimo stupro capirà..”. Prima di lui una consigliera comunale di destra aveva accusato la Fabbi di “buonismo ottuso” ed altre consimili amenità.

Le reazioni dei “politici” sono assai più gravi di quelle degli altri, perché le parole di odio, quando assumono un aspetto istituzionale, diventano ancora più rischiose ed innescano odio e intolleranza. Bene hanno fatto sindacato e ordine dei giornalisti a reagire, ma ora spetta alla magistratura e alle forze di polizia fare altrettanto.

L’istigazione all’odio, le ingiurie, la diffamazione, sono reati sanzionati dai codici in modo inequivocabile. Naturalmente restiamo sempre in attesa che le forze politiche che hanno espresso simili personaggi provvedano alla loro espulsione, ma forse i loro capi sono troppo impegnati a marciare contro i campi rom per potersi occupare di simili dettagli…

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