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Channel: Burqa – Il Fatto Quotidiano
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Canada, il Quebec vieta il velo integrale sui mezzi di trasporto e negli uffici pubblici

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Niente più velo integrale sui mezzi di trasporto e negli uffici pubblici. L’ha deciso la provincia canadese del Quebec, che ha approvato una legge per limitare l’uso da parte delle donne musulmane del niqab, che copre tutto il corpo tranne gli occhi, e del burqa, che prevede anche una retina a velare lo sguardo di chi lo indossa. Saranno vietati su autobus e treni e per tutti i lavoratori delle strutture pubbliche, compresi dottori, insegnanti e maestre d’asilo.

Il ministro della Giustizia del Quebec, Stéphanie Vallée, l’ha definita “una legge per la convivenza”, spiegando che il provvedimento è necessario “per ragioni di sicurezza” e che “rimarca chiaramente la neutralità dello Stato”. Originariamente la legge era stata pensata per vietare che chi lavorasse o si recasse in un ufficio del dipartimento governativo e in una qualsiasi istituzione finanziata dalla provincia, come le università, potesse avere il capo coperto. La misura è poi stata ampliata ai comuni, alle scuole, alla sanità e ai trasporti pubblici e così è stata approvata. “I servizi pubblici devono essere dati e usufruiti col viso scoperto, per ragioni di sicurezza, identificazione e comunicazione”, aveva anticipato già l’anno scorso Vallée.

C’erano già stati due tentativi da parte del Quebec di legiferare in materia, ma entrambi senza successo. Ci provarono inizialmente i Liberali al governo nel 2010 e poi, nel mandato successivo, il partito separatista (Parti Québécois) al potere, che aveva cercato di vietare l’esibizione di simboli religiosi da parte di insegnanti, dottori e altri lavoratori del settore pubblico.

“È una soluzione inventata per un problema che non esiste“, ha detto al Guardian Ihsaan Gardee del Consiglio nazionale dei musulmani canadesi. “Non c’è nessun’orda di donne velate che lavorano nei servizi pubblici o che vi accedono con difficoltà”. Secondo altri – continua il giornale inglese citando un sondaggio del 2016 da cui emergeva che solo il 3% delle donne musulmane in Canada indossano il velo integrale – questa legge sarebbe un modo per ingraziarsi quella fetta di popolazione più scettica sul tema dell’integrazione e guadagnare voti in vista delle elezioni provinciali dell’anno prossimo.

 

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‘Due sotto il burqa’, la cultura a volte vince sul fanatismo religioso

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La commedia etnica dell’iraniana Sou Abadi, Cherchez la Femme!, in uscita in Italia il 6 dicembre grazie a I wonder pictures con il titolo italiano di Due sotto il burqa, non vuole parlare in senso stretto di integralismo e di religione,  ma raccontare la storia d’amore tra Armand, francese di origini iraniane (interpretato da Félix Moati), e Leila di famiglia mussulmana (Camélia Jordana), due studenti di scienze politiche pronti per partire per uno stage all’Onu negli Stati Uniti. Una storia d’amore che si intreccia con l’amore tradizionale mussulmano in un singolare triangolo amoroso capace di far esplodere le fondamenta dell’estremismo religioso.

Persino un classico come Shakespeare viene confuso per una massima del Corano, quando Armand ne cita un verso sotto le vesti di Shéhérazade, fanciulla che fa perdere la testa al fratello radicalista islamico Mahmoud (William Lebghil). Come dire che la cultura a volte vince sulla religione oppure è più duratura e credibile, mentre il fanatismo rende ciechi e incapaci di vedere e scoprire la vera realtà.

La verità infatti non spunta negli occhi di Mahmoud che accecato dall’amore per Sherazade diventa persino una sorta di Jack Torrance di Shining, quando prende a colpi d’accetta la porta della camera della sorella. Forse l’unica scena esplicitamente violenta di una storia, che per lo più gioca con il travestimento, ma pone anche un parallelismo tra politica e religione, tra la lotta per la libertà e i suoi ideali. Una società, sembra suggerirci la regista, che ha rinnegato la propria storia e i propri principi fatica a farsi spazio tra le altre comunità.

Per scegliere gli attori, la regista ha ricevuto una serie di No, proprio per la miscredenza dei personaggi principali, ma grazie a questo è riuscita a delineare un inedito punto di vista sull’estremismo religioso, tanto da dichiarare pubblicamente che la maggior parte di loro diventa integralista o carente d’affetto. Ma tra Charlie Hebdo e Mahmoud sicuramente è preferibile quest’ultimo. Cherchez la Femme!

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Svizzera, ok a legge anti-burqa in due cantoni. Nel 2019 voto nazionale

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Dopo il Canton Ticino, anche il San Gallo ha introdotto in Svizzera – paese in Europa con il più alto numero di stranieri – il divieto di dissimulare il volto nei luoghi pubblici. La partecipazione al voto è stata del 35,8%. La proposta è stata accolta in tutti i comuni, con percentuali spesso superiori al 70% (83.830 voti contro 36.948) e la decisione apre la strada a quello che, probabilmente, sarà l’esito del quesito quando verrà proposto a livello nazionale nel 2019.

In passato, già Francia, Belgio e Austria hanno detto sì al divieto del volo integrale, che per la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo non è un atto discriminatorio e non viola il diritto al rispetto della vita privata e alla libertà di pensiero, coscienza, religione. In Marocco, inoltre, è stata vietata la vendita del burqa, mentre in Italia la Regione Lombardia ha approvato una norma ad hoc per ribadire il divieto – già previsto da una legge nazionale – a entrare nei luoghi pubblici senza mostrare il volto.

Al voto nel cantone San Gallo si è arrivati poiché la revisione della legge sulle contravvenzioni, approvata di misura dal parlamento cantonale a fine 2017 (Udc e Ppd erano a favore, il Plr e lo schieramento rosso-verde contrari), è stata combattuta da un referendum lanciato dalle sezioni giovani di Ps, Verdi e Verdi liberali. Il testo adottato dal legislativo cantonale – che si ispira all’articolo costituzionale già in vigore in Ticino – prevede che chiunque si copra il volto in pubblico sia punibile se “minaccia o mette in pericolo la sicurezza pubblica o la pace sociale o religiosa“. L’esistenza di un pericolo in tal senso deve essere valutato caso per caso.  La legge sangallese già prevede un divieto di dissimulare il volto, ma limitatamente agli assembramenti che necessitano di autorizzazione, alle manifestazioni e agli eventi sportivi. A livello federale è stata formalmente dichiarata riuscita lo scorso ottobre l’iniziativa popolare Sì al divieto di dissimulare il proprio viso lanciata dal Comitato di Egerkingen che già aveva promosso l’iniziativa contro i minareti e di cui fanno parte esponenti dell’Dc e dell’Unione democratica federale (Udf).

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Torino, la procura chiede archiviazione per donna egiziana che indossa il burqa

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Le musulmane possono indossare il velo integrale. È la lettura data dalla Procura di Torino in merito a una denuncia presentata a febbraio da un italiano contro un’egiziana di Chivasso che indossa il niqab. Non ci sarebbe nessun pericolo pubblico, né sarebbe stata violata la legge Reale sul “travisamento”, perché la donna si lascia identificare e perché predominano i principi costituzionali a tutela dell’espressione religiosa. Sulla questione del velo integrale sono questi i cardini giuridici ribaditi dal procuratore aggiunto Paolo Borgna, a capo del gruppo sulla sicurezza urbana, che ha chiesto al giudice per le indagini preliminari di archiviare il procedimento. Una decisione che potrebbe rianimare le polemiche sul “burqa”.

Era l’11 gennaio scorso quando una egiziana di circa 35 anni residente a Chivasso, è stata notata in un negozio da un geometra che il 9 febbraio successivo ha fatto una denuncia ai carabinieri. Stando a quanto riferito ai militari l’uomo aveva visto una donna “completamente coperta da un sudario scuro”, un capo che presentava “solo una fessura per gli occhi”. In lei aveva riconosciuto la stessa persona già incontrata e fermata dai carabinieri il 11 agosto 2010 perché passeggiava in città coperta da un niqab. Per il geometra la donna aveva una carta di identità “irritualmente rilasciatale dall’Ufficio anagrafe di Chivasso, non conforme alla legge” perché sulla foto del documento (di cui l’uomo aveva una fotocopia, “procuratosi chissà come”, si chiede il pm) aveva un semplice velo, un hijab, che lascia scoperto il viso. Lo stesso uomo aveva denunciato la signora in un’altra occasione. Il primo giugno 2010 aveva inviato una mail al direttore dell’Asl di Chivasso e alla responsabile del consultorio ginecologico lamentandosi della presenza della signora nella struttura qualche giorno prima. Eppure, nella sala d’attesa dell’Asl, l’egiziana si era scoperta il volto e non si è mai sottratta ai controlli d’identità.

Quella prima denuncia era arrivata sul tavolo del pm Raffaele Guariniello che, nella richiesta di archiviazione, sottolineava come l’articolo 5 della legge 152/75 (la legge “Reale”, nata nel periodo delle contestazioni e del terrorismo) punisca chi usa caschi protettivi o “qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo”. Nel caso di Chivasso la cittadina straniera “indossava il burqa (un niqab, in realtà, ndr) in ossequio, secondo un’interpretazione diffusa, ai principi della religione islamica: e dunque l’applicazione del divieto imposto dalla legge deve coniugarsi con il rispetto dell’articolo 8 della Costituzione”. Inoltre “la motivazione religiosa della condotta contestata” può essere considerata uno dei “giustificati motivi previsti dal Legislatore”. Guariniello prima e Borgna ora riconoscono il diritto tutelato dall’articolo 19 della Costituzione a manifestare “in qualsiasi forma” la propria fede e il rispetto dei limiti del “buon costume”.

In più per il procuratore aggiunto Borgna non c’è niente di anomalo nella carta d’identità della donna perché i tratti somatici e il viso sono visibili e riconoscibili. Inoltre una circolare del Ministero dell’Interno datata 1995 consente nei documenti l’uso di foto con copricapi “religiosi”, come i veli delle suore cattoliche, non equiparabili all’uso di un qualsiasi cappello. E forse proprio questo l’elemento su cui faceva leva  la denunciata., a cui i servizi demografici del Comune avevano negato il rilascio del documento d’identità per via delle fototessere in cui lui portava un caschetto da cantiere: “Non è verosimile pensare che indossi abitualmente e sistematicamente tale casco, trattandosi di un dispositivo di protezione antinfortunistico”, scrive il pm. Il provvedimento ha subito suscitato le reazioni del centro-destra. Per Maurizio Marrone, consigliere comunale del Pdl, “Grazie alla procura, Torino diventa Torinistan”, mentre per l’eurodeputato leghista Mario Borghezio: “Torino rischia di diventare la capitale europea del burqa”

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Donna in burqa e nel Veronese il sindaco leghista firma subito ordinanza

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Concamarise, il più piccolo comune della Bassa Veronese (1000 abitanti, il 10% dei quali stranieri), dice stop al burqa nei luoghi pubblici. A firmare l’ordinanza che vieta in tutto il territorio comunale, nelle aree pubbliche o aperte al pubblico poste nelle vicinanze di scuole, asili, giardini e uffici, di indossare “un abbigliamento – si legge nell’atto amministrativo – che renda difficoltosa l’immediata riconoscibilità della persona”, il sindaco leghista Cristiano Zuliani. Un personaggio molto attivo nella piccola comunità della Bassa, già balzato agli onori delle cronache per aver svolto – in risposta ai tagli del governo – l’attività di accompagnatore di bambini nelle scuole del territorio, sorvegliante e autista di scuolabus.

A onor del vero la parola burqa nel testo dell’ordinanza non compare, ma è lo stesso primo cittadino, dalle pagine del quotidiano L’Arena, a togliere ogni dubbio sul fatto che la necessità di adottare questo provvedimento gli sia stata suggerita da alcuni cittadini preoccupati dopo l’avvistamento in paese, nei giorni scorsi, di una donna interamente coperta dall’abito di tradizione musulmana. Una visione non frequente da quelle parti, dove più o meno si conoscono tutti. “A essere avvistata – dichiara Zuliani su L’Arena – è stata una sola donna, integralmente coperta dal burqa ma, considerate le segnalazioni dei cittadini e il fatto che in passato la stessa non lo indossava, ho ritenuto di intervenire per prevenire la diffusione di questa tradizione invisa ai residenti”. Ma il sindaco non vuole passare per razzista e intollerante e precisa quali sono i veri intenti del provvedimento: “Non si tratta di intolleranza religiosa, anzi, l’ordinanza mira proprio a facilitare l‘integrazione attraverso il rispetto di alcune regole”, senza dimenticare l’aspetto della sicurezza: “Ritengo giusto – spiega ancora il primo cittadino veronese – che le persone nei luoghi pubblici possano essere riconosciute”. L’ordinanza, peraltro, mette tutti d’accordo in paese. Anche i consiglieri di minoranza, infatti, non hanno nulla da ridire sull’iniziativa del sindaco e parlano di ordinanza generica prevista dalla legge italiana che “ci trova d’accordo – sostiene sempre su L’Arena Ivan Rossetti, capogruppo di minoranza – perché finalizzata a soddisfare le richieste dei cittadini e utile per una migliore integrazione”. I trasgressori saranno multati con una sanzione di 500 euro.

Non è la prima ordinanza di questo tipo che viene adottata in Italia dai sindaci. Per citare qualche esempio, nel novembre del 2009 Gianluca Bonanno, sindaco leghista del Comune di Varallo, in provincia di Vercelli, ha emanato un provvedimento che vieta su tutto il territorio comunale di indossare burqa e niqab, il velo islamico che lascia scoperti gli occhi. Il primo cittadino piemontese ha giustificato l’ordinanza dicendo che “occorre prevenire per favorire una vera e sana integrazione contingentata”. Qualche giorno prima del provvedimento, il sindaco leghista aveva acquistato, a spese del comune, un ingente quantitativo di crocefissi da regalare a chi ne avesse fatto richiesta.

Più recente il caso di Sesto San Giovanni, grosso comune alle porte di Milano. Nel febbraio del 2011, nell’ex roccaforte rossa lombarda, è stata votata quasi all’unanimità una mozione anti-burqa presentata da un consigliere leghista. Altri provvedimenti del genere anche nel Comune di Montegrotto Terme, in provincia di Padova. Ha fatto scalpore, poi, nel settembre del 2010, la protesta di un gruppo di mamme di Sonnino, in provincia di Latina, preoccupate dal fatto che i loro bambini non volevano più andare all’asilo, dopo aver visto una donna interamente coperta dal velo islamico accompagnare il proprio figlio. E ancora a Mantova, nel novembre del 2010, un funzionario della Motorizzazione Civile ha costretto una ragazza maghrebina a togliersi il velo per sostenere l’esame di guida. Temeva che la donna nascondesse un auricolare. 

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Venezia, bambino afghano di 5 anni trovato in un trolley al porto

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Nei trolley dei viaggiatori le forze dell’ordine trovano di tutto. Ma quando un finanziere, in servizio al porto di Venezia, ha aperto una piccola valigia 60×30 non immaginava che vi avrebbe trovato un bambino. Assim, cinque anni, afghano, doveva raggiungere la Germania con il suo accompagnatore, che prima si è definito suo padre, poi suo zio. L’adulto, come riportano alcuni quotidiani tra cui il Corriere della Sera e il Gazzettino, è stato arrestato anche dopo aver mostrato le fotografie della famiglia del piccolo che ha riconosciuto le persone nelle immagini. Il cucciolo d’uomo è stato affidato ai servizi sociali e sarà accolto in una famiglia veneziana in attesa che la magistratura minorile chiarisca tutti gli aspetti di questa vicenda. Certo è che il bimbo ha fatto un lunghissimo e pericoloso viaggio.

“E’ una storia incredibile – dice Luca Lo Presti, presidente della Pangea una onlus che da dieci anni è presente nel paese dei talebani -. In Afghanistan non è solo l’infanzia a essere negata, ma la via stessa. Fa impressione pensare a una madre che infila un figlio in una valigia per farlo scappare dalla guerra. Magari gli sorride per dirgli stare buono e risponde che no, lei non può entrare nella valigia. Fa rabbia pensare che ogni giorno l’Italia spende milioni in una missione che non ha portato pace; l’Afghanistan è diventato il primo esportatore di oppio e la situazione del popolo non è certo migliorata”.

Questa onlus in dieci anni ha “salvato” sei mila donne afghane e con loro i loro figli; grazie al microcredito hanno aperto panetterie, fanno scarpe o cuciono vestiti, qualcuna è diventata parrucchiera. “Il nostro ufficio a Kabul costa 40 mila euro all’anno, aiutiamo 400 donne e 50 bambini con quei milioni della missione potremmo rifare l’Afghanistan” dice Lo Presti. Di storie come quella di Assim il volontario ne ha viste tante: pullman di bambini che passano il confine con l’Iran: “Quelli belli magari finiscono in adozioni internazionali, gli altri nella prostituzione o in mano ai trafficanti di organi”. Assim ha viaggiato attraversano l’Iran appunto fino in Turchia per poi imbarcarsi in Grecia, forse sempre chiuso in quella scatola con un forellino che gli ha permesso di respirare. “Un bambino afghano sa tanto della vita – commenta Lo Presti – ma non è giusto che accada. Queste persone, donne uomini e bambini, scappano da situazioni disumane. Noi lì cerchiamo di portare pace e con i soldi di un solo giorno di missione potremmo farlo ancora di più. Il futuro dei minori passa anche attraverso le mamme perciò noi cerchiamo di aiutare le donne. E quando una si è alzato il burqa e ci ha chiesto di insegnarle a essere bella abbiamo pensato di fare dei corsi, che sono stati tenuti da due parrucchiere di Padova e Pistoia. Anche da qui passa l’emancipazione della donna e la salvaguardia dei loro figli”. Dopo l’apertura a giugno di una casa a Kabul la onlus punta ad aprirne un’altra per “dare la stessa opportunità alle 110 donne e ai loro bambini, che sono state selezionate dal nostro staff afghano” e per questo è partita una campagna di raccolta fondi con regali solidali. 

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Pakistan, arriva la “vendicatrice con il burka” che lotta per i diritti delle donne

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Il burka è considerato da molte donne occidentali simbolo di costrizione e oppressione. Forse da oggi qualcosa potrebbe cambiare. Il cantante pop, compositore, musicista e produttore anglo-pakistano, Aaron Haroon Rashid ha creato un cartone animato, chiamato “Burka avenger” ossia “La vendicatrice con il burka”, per spiegare l’importanza dell’educazione femminile e sdoganare i preconcetti legati all’uso del velo integrale.

In Italia si parla del Pakistan solo per i disordini afghani o per atti di violenza. Nell’ottobre del 2012 la giovane quindicenne Malala Yousufzai è divenuta, suo malgrado, portavoce di una situazione che colpisce gravemente il sistema educativo pakistano. Sostenitrice dell’importanza dell’educazione per le donne (secondo le statiche dell’Onu e del governo pakistano tre quarti delle giovani donne non hanno accesso alle scuole primarie) è stata quasi uccisa da un colpo di pistola sparato da un commando di talebani convinti che la ragazzina non rispettasse la sharia

Forse ispirato da questo fatto Haroon ha pensato di creare non solo un cartone animato ma un intero progetto che include gadget, videogiochi, un supporto a comunità locali a favore dell’educazione femminile. La trama del cartone animato è intrigante. Una giovane insegnante di scuola elementare, orfana sin da piccola, viene adottata da un insegnante di arti marziali. Il padre adottivo la educa all’antica arte (inventata) del “takht kabaddi”: un mix di combattimento creativo con penne, matite e libri più una serie di evoluzioni acrobatiche. Una sorta di disciplina ninja adattata a uso scolastico. Di giorno insegnante, di notte vendicatrice mascherata per combattere i soprusi, difendere i deboli e diffondere l’importanza dell’istruzione.

Un immagine dal cartone animato "Burka avenger"

La figura del difensore mascherato non è nuova. Spesso la loro nascita è coincisa con momenti critici della storia di una nazione. Basti pensare a tutti gli eroi della Marvel: Batman, gli Xmen, Ironman, tutti personaggi che hanno “servito” la comunicazione nazionale americana durante e dopo la guerra mondiale. Di recente gli eroi della Marvel, in coincidenza con la crisi economica americana che ha messo in ginocchio milioni di cittadini, sono riapparsi per rilanciare il modello a stelle e strisce. Allo stesso modo l’idea dell’eroe mascherato anche in Pakistan diventa portatore di valori positivi: così “Burka avenger” è il primo, forse non l’ultimo, esempio di comunicazione nazionale per bambini.

Il programma è visibile in rete gratuitamente e il suo creatore prevede di lanciarlo in visione in tutto il mondo islamico. Come sarà accolto il progetto dagli islamici più conservatori? Dal punto di vista mediatico è già un successo, visto che anche il Washington Post ha riportato una lunga analisi del cartone animato, dibattendo sulla sua utilità e validità.

Una giovane insegnante elementare nel distretto pakistano di Swat, Sobia Chaudry ha dichiarato al quotidiano online The diplomat: “Chiaramente Haroon ha fatto una scelta attenta di vestire una donna con quello (il burka) che è stato comunemente criticato dalla stampa liberale. Con questo potente strumento, un cartone animato in lingua urdu (la lingua nazionale del Pakistan e lingua ufficiale dell’amministrazione nazionale indiana, ndr) che mostra le avventure di una comune insegnante, Haroon usa la sua particolare immagine per combattere la visione pubblica generale. Un progetto fantastico”.

La scelta di legare un tema forte come l’educazione delle giovani donne a un capo di abbigliamento tradizionale come il burka potrebbe essere una scelta vincente. La comprensione che gli occidentali hanno di alcune pratiche islamiche – come quella di coprirsi il capo con lo hijab in Iran o il burka in Pakistan, Afghanistan ed Emirati arabi – è spesso lacunosa perché priva di una visione d’insieme del mondo islamico. Partendo dal presupposto che qualunque cambiamento in una società tradizionale con un forte attaccamento alla religione deve partire da piccoli passi, questo cartone animato, distribuito in tutto il mondo islamico, potrebbe essere il primo mattone per costruire un nuovo islam, liberale e aperto alla crescita culturale e spirituale della donna. 

Twitter @EnricoVerga

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Canton Ticino, referendum sul burqa: vincono i sì. Vietato il velo integrale

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Gli elettori del Canton Ticino hanno approvato l’iniziativa che vieta la dissimulazione del volto in pubblico. La legge anti-burqa, secondo una proiezione della Radio Televisione della Svizzera Italiana, è stata votata dal 65% dei ticinesi. Il Canton Ticino è il primo cantone svizzero a vietare l’uso del velo religioso nei luoghi pubblici. Gli elettori sono stati chiamati a scegliere se inserire un nuovo articolo nella Costituzione cantonale con cui si vieta “di nascondere il volto nei luoghi pubblici e in quelli aperti al pubblico” oppure bocciare la proposta e lasciare inalterata la Carta. “Nessuno può dissimulare o nascondere il proprio viso nelle vie pubbliche e nei luoghi aperti al pubblico (ad eccezione dei luoghi di culto) o destinati ad offrire un servizio pubblico – si legge nel testo del quesito – Nessuno può obbligare una persona a dissimulare il viso in ragione del suo sesso”. Organizzazioni islamiche svizzere e Amnesty International hanno preso posizione contro questo progetto. 

Esultano dall’Italia i parlamentari della Lega Nord. “Complimenti agli amici del Canton Ticino – scrive su facebook Nicola Molteni – Adesso anche da noi si voti la stessa proposta di legge della Lega”. Matteo Bragantini aggiunge: “E’ una straordinaria vittoria del buonsenso per due motivi: il primo è che nessuno, per questioni di sicurezza, dovrebbe andare in giro a volto coperto e il secondo trova radici nel rispetto della donna. E’ una battaglia di civiltà”.

Durante la stessa giornata di voto, secondo le proiezioni, gli svizzeri hanno anche bocciato di nuovo la proposta di eliminare la leva obbligatoria. La misura è messa al voto per la terza volta in quasi 25 anni. A proporre la misura partiti pacifisti e di sinistra, nonostante gli svizzeri si siano già espressi in modo contrario nel 1989 e nel 2001. Secondo l’emittente pubblica Srf, che cita l’istituto di rilevazioni gfs.bern, il 73% dei votanti respingerebbe l’abolizione. Il governo svizzero ha invitato i votanti a bocciarla, in controtendenza a molti Paesi europei. Il servizio militare è obbligatorio per gli uomini tra 18 e 34 anni, mentre le donne possono servire in modo volontario. Ogni anno le reclute impegnate per 18-21 mesi sono circa 20mila.

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De Burka

Violenza sulle donne: l’Afghanistan e l’incubo della lapidazione legalizzata

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Il 25 novembre  leggo che Human Right Watch, organizzazione che monitora l’applicazione dei diritti umani nel mondo, denuncia l’intenzione da parte dello Stato afgano di inserire nella riforma del proprio codice penale la lapidazione per le donne accusate di adulterio.

La mia mente vola velocemente a 14 anni fa, alle scene raccapriccianti per cui si erano distinti i Talebani lapidando donne in varie parti del paese, e allo stadio di Kabul, dove al tempo si svolgeva lo “spettacolo” davanti ad una folla di uomini, bambini, donne in burqa; lo stesso stadio dove oggi si va a correre, si gioca a calcio, e si svolgono le competizioni di Buskaschi.

Ho passato tre giorni con questo pensiero-nube chiedendomi “Ma come è possibile?”.  Ho rimescolato dentro di me le storie che mi hanno raccontato in tanti anni le donne afgane, storie in cui la violenza è quotidiana e permanente, in un paese in cui le possibilità di ottenere giustizia da parte dello Stato sono minime, e dove il rispetto in famiglia è troppo spesso un risultato da raggiungere faticoso e in continua costruzione, mai dato per scontato!

Ma oggi una buona notizia, almeno spero rimanga tale. “Non inseriranno la lapidazione nel codice penale e sai perché?”- mi dice Shukria Barakzai, parlamentare afgana durante la pausa in una conferenza in cui è stata invitata in Italia – “perché per l’articolo 7 della Costituzione Afghana è vietato.

Tiro un sospiro di sollievo, per il momento, fino a prova contraria. “Se non abbiamo le leggi non possiamo neanche pensare di modificare le pratiche tradizionali per farci rispettare!”, mi diceva una decina di ani fa una donna impegnata nella ricostruzione della società civile afgana. “Ecco perché il lavoro va fatto con le istituzioni come con le persone.”

E in effetti in un paese come l’Afghanistan il lavoro da fare dal punto di vista della discriminazione delle donne continua ad essere un dato di fatto. Lo testimonia la composizione stessa del sistema giuridico: circa 20.000 giudici per oltre 25milioni di abitanti, di cui neanche 200 sono magistrate donne.

La loro dislocazione nel territorio afghano la dice lunga sulla situazione vissuta da tutte le donne: le magistrate sono presenti in cinque province su 34 sulla base dei dati Unama e sono così suddivise:  10 a Balk, 5 a Herat, 2 a Takhar e Baghlan, tutte le altre 17 a Kabul.

Davanti alle “prove di recupero dei valori talebani” nell’apparato statale afgano da parte di ministri con il beneplacito dei parlamentari e non solo, oggi più che mai, per superare l’impasse e non far ricadere la metà della popolazione nelle condizioni di 14 anni fa, conta il peso positivo che possono giocare le relazioni e gli aiuti internazionali dei Paesi che sostengono a suon di denari il processo di ricostruzione dell’Afghanistan.

Un esempio per tutti lo ha dato un ministro del Regno Unito che, dopo la notizia del 25 novembre, ha chiamato il presidente Karzai per ribadire che la condizione posta al governo di Kabul per ricevere aiuti dal suo Paese è rispettare un chiaro impegno verso il contrasto alla violenza sulle donne in Afghanistan.

Questa vicenda è solo uno dei tanti esempi della sfida da affrontare nel Paese ancora oggi. Soprattutto perché permane la preoccupazione da parte delle organizzazioni di donne afgane di un colpo di mano dei conservatori fondamentalisti sull’inserimento della lapidazione nel codice penale.

A maggior ragione si deve oggi rafforzare il ruolo vigilante della società civile afghana e internazionale e si devono moltiplicare le azioni e i programmi rivolti alla promozione dei diritti umani e della partecipazione delle donne nella vita economica e culturale, al contrasto alla violenza domestica  e dei matrimoni forzati e precoci, per cercare di garantire il diritto ad una esistenza dignitosa per ogni donna, bambina, bambino e uomo, come quelli sostenuti da Pangea e da altre organizzazioni non governative.

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Islam, chi reagirà all’odio in Rete contro la cronista che racconta i convertiti?

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Qualche giorno fa una giovane e rigorosa cronista del Corriere dell’Alto Adige di Bolzano, Silvia Fabbi ha realizzato una intervista con un italiano che ha deciso di convertirsi all’Islam. Non occorre un luminare dei media per comprendere che, comunque la si pensi, si tratta di un argomento di attualità e di grande rilevanza, sia nella realtà nazionale, sia in quelle locali. Ascoltare e far ascoltare queste voci significa anche consentire alla pubblica opinione di comprendere la sostanziale differenza tra chi di converte e sceglie la lotta armata e chi, come accade nella la stragrande maggioranza dei casi, sceglie un’altra fede per altre ragioni.

Sia come sia, Silvia Fabbi ha compiuto il suo dovere di cronista; forse proprio questo ha scatenato i peggiori umori degli intolleranti e dei razzisti di turno; con l’aggravante che essendo l’autrice una donna, nei suoi confronti gli squadristi di turno si sono sentiti anche autorizzati ad utilizzare quel linguaggio “da fogna” che, per altro, ben fotografa il loro animo. Il loro livore ha trovato ospitalità sulla rete. Uno dei più invasati ha scritto: “Ci auguriamo che venga stuprata, poi massacrata, infine decapitata, chi difende i Musulmani merita questo...”

Per altro la danza era stata aperta da uno certo signor Sergio Armanini, già candidato della Lega a Merano che aveva scritto: “Ma perché non le mettiamo un burqa e non la facciamo andare in Nigeria, al centesimo stupro capirà..”. Prima di lui una consigliera comunale di destra aveva accusato la Fabbi di “buonismo ottuso” ed altre consimili amenità.

Le reazioni dei “politici” sono assai più gravi di quelle degli altri, perché le parole di odio, quando assumono un aspetto istituzionale, diventano ancora più rischiose ed innescano odio e intolleranza. Bene hanno fatto sindacato e ordine dei giornalisti a reagire, ma ora spetta alla magistratura e alle forze di polizia fare altrettanto.

L’istigazione all’odio, le ingiurie, la diffamazione, sono reati sanzionati dai codici in modo inequivocabile. Naturalmente restiamo sempre in attesa che le forze politiche che hanno espresso simili personaggi provvedano alla loro espulsione, ma forse i loro capi sono troppo impegnati a marciare contro i campi rom per potersi occupare di simili dettagli…

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Islam: la signora Santanchè o della propaganda in democrazia

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Come funziona la propaganda? E perché è pericolosa in democrazia tanto che Platone voleva chiudere la bocca ai sofisti e a tutti i retori capaci di giocare col linguaggio per confondere i cittadini? Il filosofo americano Jason Stanley in un libro recente spiega il meccanismo retorico insidioso della propaganda: invocare a gran voce un valore qualsiasi per persuadere in realtà gli altri che è giusto adottare politiche che negano quel valore. Per esempio, in nome della tolleranza bisogna vietare l’accesso in Europa a persone provenienti da Stati intolleranti, spingendo così verso una politica intollerante nei confronti di certi gruppi etnici. Oppure in nome della libertà delle donne difendere politiche illiberali contro i musulmani.

L’onorevole Santanchè è un esempio perfetto, forse a sua insaputa, di questo espediente retorico.

Mi sono dovuta confrontare con la signora Santanchè venerdì sera alla trasmissione di Lilli Gruber Otto e mezzo, dov’ero invitata con lei e con una teologa italiana musulmana, Nibras Breigheche.

La propaganda è subdola perché è difficile riconoscerla e distinguerla dai buoni argomenti. Soprattutto in televisione, dove il tempo è poco e i messaggi confezionati passano più facilmente dei ragionamenti.

Così la signora Santanchè comincia immediatamente ad attaccare la giovane teologa, per la prima volta invitata alla trasmissione ed estremamente educata, sfruttando la sua ben rodata esperienza di tivù e non lasciandola parlare, negando con la menzione di “fatti precisi” – tutti poi rivelatisi falsi – tutto ciò che diceva la teologa, mostrando dunque la stessa violenza e sopraffazione su una donna che lei sosteneva di combattere in nome della sorellanza universale.

Poi se la prende con me senza alcuna ragione, dato che da atea e antireligiosa quale sono, mi sembra difficile aver difeso posizioni pro-burqa, strillandomi che è molto fiera che suo figlio, immagino universitario a Parigi, non verrà mai a seguire i miei corsi, come se un ventenne brillante che studia all’estero stesse ad ascoltare la mamma per decidere che corsi seguire. Ho tanti studenti di tutti i paesi, anche musulmani, ai quali le madri lasciano la libertà di scegliere cosa studiare.

Poi interrompe di nuovo per dire che un inesistente art. 52 della legge reale sulla tutela dell’ordine pubblico è stato eliminato. Falso. Forse pensava all’art. 152, che è stato rinforzato? Ma sufficiente per mettere in difficoltà la teologa. La menzione esatta di dati inverificabili o falsi e un’altra vecchia tecnica di propaganda o, più semplicemente, come si diceva a casa mia, di “trombonaggine” per tenersi tutto lo spazio della conversazione e non mollare nulla. Il trombone difatti menziona dati con certezza senza sapere di che parla e sta bene attento a non terminare mai una frase con un punto interrogativo per non rischiare di aprire una breccia nel suo assordante assolo.

Gli slogan anche sono una tecnica: la “prigione portatile” del burqa ripetuta cinque, sei volte, o l’essere o non essere nello stesso film.

La povera signora Santanchè, nella ben stretta prigione portatile dei suoi pensieri, si è anche rivelata una perfetta istanza della famosa Terza Legge Fondamentale della Stupidità Umana: “Lo stupido è colui che nuoce agli altri senza nessun vantaggio per se stesso”. Perciò lo stupido è pericoloso: perché non si capisce lo scopo delle sue azioni, non è strategico e dunque ti sorprende sempre nel suo nuocerti perché non capisci perché l’ha fatto.

Quanto a me, ho avuto solo una conferma della Prima Legge della Stupidità Umana: “Sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di stupidi in circolazione”.

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‘Due sotto il burqa’, la cultura a volte vince sul fanatismo religioso

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La commedia etnica dell’iraniana Sou Abadi, Cherchez la Femme!, in uscita in Italia il 6 dicembre grazie a I wonder pictures con il titolo italiano di Due sotto il burqa, non vuole parlare in senso stretto di integralismo e di religione,  ma raccontare la storia d’amore tra Armand, francese di origini iraniane (interpretato da Félix Moati), e Leila di famiglia mussulmana (Camélia Jordana), due studenti di scienze politiche pronti per partire per uno stage all’Onu negli Stati Uniti. Una storia d’amore che si intreccia con l’amore tradizionale mussulmano in un singolare triangolo amoroso capace di far esplodere le fondamenta dell’estremismo religioso.

Persino un classico come Shakespeare viene confuso per una massima del Corano, quando Armand ne cita un verso sotto le vesti di Shéhérazade, fanciulla che fa perdere la testa al fratello radicalista islamico Mahmoud (William Lebghil). Come dire che la cultura a volte vince sulla religione oppure è più duratura e credibile, mentre il fanatismo rende ciechi e incapaci di vedere e scoprire la vera realtà.

La verità infatti non spunta negli occhi di Mahmoud che accecato dall’amore per Sherazade diventa persino una sorta di Jack Torrance di Shining, quando prende a colpi d’accetta la porta della camera della sorella. Forse l’unica scena esplicitamente violenta di una storia, che per lo più gioca con il travestimento, ma pone anche un parallelismo tra politica e religione, tra la lotta per la libertà e i suoi ideali. Una società, sembra suggerirci la regista, che ha rinnegato la propria storia e i propri principi fatica a farsi spazio tra le altre comunità.

Per scegliere gli attori, la regista ha ricevuto una serie di No, proprio per la miscredenza dei personaggi principali, ma grazie a questo è riuscita a delineare un inedito punto di vista sull’estremismo religioso, tanto da dichiarare pubblicamente che la maggior parte di loro diventa integralista o carente d’affetto. Ma tra Charlie Hebdo e Mahmoud sicuramente è preferibile quest’ultimo. Cherchez la Femme!

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Austria, il divieto di indossare il velo nelle scuole è un’inaccettabile forma di terrorismo razziale

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Ieri, 28 gennaio 2020, l’Ansa ha lanciato la notizia secondo cui anche il vescovo di Innsbruck, Hermann Gletter – dopo che lo aveva fatto anche il cardinale di Vienna, Christoph Schönborn -, si è schierato contro il divieto alle donne musulmane di portare il velo nelle scuole pubbliche. La notizia è subito ripresa da tutti i giornali, anche italiani, ed è immaginabile che susciterà una “guerra di religione”, almeno sul web.

Ecco i fatti. In Austria il partito popolare (destra) del cancelliere Sebastian Kurz (Övp) e il partito dei Verdi si apprestano a varare una legge che allarga fino all’età di 14 anni il divieto di portare il velo, già esistente per le bimbe musulmane delle scuole elementari.

Tra il 2010 e il 2011 i parlamenti di Belgio e Francia hanno approvato il divieto del velo islamico che copre il viso su tutti i luoghi pubblici del territorio nazionale. Nel Canton Ticino dal 2013 è vietato in pubblico nascondere il viso; nel 2015 il Consiglio Federale Svizzero ha approvato l’inserimento del divieto nella Costituzione cantonale del Ticino.

Negli altri Paesi europei non esiste alcun divieto sancito per legge. La sentenza n. 2010-1192 (01-07-2014) della Corte Europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato che “non contrasta con la Cedu, né costituisce violazione della libertà religiosa del ricorrente, la legge francese del 2010 che pone il divieto di indossare il velo islamico nei luoghi pubblici”.

Il velo islamico è una delle espressioni identitarie della cultura medio orientale, araba e musulmana in particolare. Per molti è un segno di sudditanza della donna e proibirlo è affermare la pari dignità della donna in una società evoluta. Altri, specialmente le donne musulmane, rivendicano il diritto di portare il velo, sotto qualsiasi foggia, parziale o totale, perché espressione religiosa e culturale di chi lo indossa.

Per nessuno è un problema il velo (copre solo i capelli) o il chador (mantello che copre la donna lasciando il volto scoperto). Il problema in occidente si pone per il niqab che copre il capo, lasciando scoperti gli occhi e che è un completamento dell’abàya (che copre il resto del corpo) e, peggio ancora per il burqa: copre tutto il corpo da piedi a capo, con una fitta retina davanti agli occhi per vedere.

L’origine del velo si perde nella notte dei tempi ed è legato alle cosmogonie orientali, nelle quali emerge la colpa della donna nell’avere indotto l’uomo al peccato di trasgressione all’ordine di un dio. La condanna per questo sacrilegio è la sottomissione eterna della donna all’uomo che ne diventa proprietario. La donna non ha diritto di parola, non può testimoniare in tribunale, deve restare nascosta per svelarsi solo davanti al suo “signore/marito/padrone”.

Anche nell’harem la donna può essere discinta, ma deve portare il velo a copertura del volto e del capo. Il velo è proprio della tradizione ebraica, ripresa dal mondo cristiano, che lo sviluppò nei secoli, e infine dal mondo musulmano che lo mutuò dal cristianesimo.

Le monache e suore cristiane, cattoliche e ortodosse, portano ancora oggi il velo e quelle di clausura sono ancora oggi nascoste a occhi indiscreti, con il velo sostituito dalle grate di ferro. Nessuno, a rigore di ordine storico, può dire onestamente che il velo femminile sia una caratteristica solo musulmana, a meno che non sia in malafede. Fino oltre gli anni 50 del secolo scorso, cioè fino a 60 anni fa, le mie nonne portavano il velo che copriva il capo e gonne che coprivano l’intero corpo fino ai piedi.

È chiaro che il governo austriaco la vuole buttare in caciara e dimostrare nei fatti la propria attitudine razzista e xenofoba. L’allargamento del divieto austriaco e, prima ancora quello francese, belga o svizzero sono inficiati da nazionalismo etnico, quasi tribale, mentre vorrebbero farli apparire come fattori di “civiltà” senza rendersi conto di essere contraddittori e ignoranti. Hanno fatto bene i vescovi austriaci a protestare e a contrastare questo disegno disumano, perché motivato da ragioni discriminatorie e xenofobe. Non è una scelta politica, ma una forma di terrorismo razziale. Inaccettabile.

Altro, invece, sarebbe stato dire: riconosciamo pari diritti/doveri a tutte le cittadine di qualunque nazionalità. Nel rispetto delle leggi vigenti, chiunque può vestirsi come vuole; a tutti i cittadini è fatto divieto di svolgere attività pubblica o di apparire in pubblico con il volto coperto e non immediatamente riconoscibile per esclusivi motivi di ordine pubblico. Alle piccole cittadine austriache delle scuole materne (2018) ed elementari (2019) è già vietato coprirsi il volto in pubblico e dal 2020 il governo intende estendere questo divieto anche alle scuole medie per arrivare gradualmente all’intera società, senza distinzione, comprese le donne non nate in Austria, ma che hanno scelto il nostro Paese come luogo della loro vita.

Noi rispettiamo la religione, la cultura, l’origine, gli usi da qualsiasi nazionalità provengano. Ma andare incontro a popoli diversi e vivere presso di essi significa anche “mescolarsi” e lasciarsi contaminare. Per la ricchezza plurale, non per la grettezza singolare che chiude.

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Svizzera, vince il sì al referendum anti-burqa: sarà vietato coprirsi il volto nei luoghi pubblici

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In Svizzera non si potrà più indossare il burqa o il niqab. Con una risicata maggioranza, pari al 51,2% e 20 cantoni su 26, gli elettori elvetici hanno approvato il referendum sul testo di modifica costituzionale che vieta di celare il volto in tutti i luoghi pubblici, in particolare nelle strade, nei trasporti pubblici o negli stadi e riguarda anche tifosi e manifestanti. La percentuale dei voti favorevoli rispecchia l’esito incerto previsto dagli ultimi sondaggi, ma la proposta si è imposta senza difficoltà nella stragrande maggioranza dei cantoni: con 20 a favore e appena 6 contrari (Basilea Città, Zurigo, Appenzello Esterno, Ginevra, Berna e Grigioni).

In 15 cantoni svizzeri è già in vigore il divieto di coprirsi il viso in occasione di manifestazioni ed eventi sportivi, mentre la proibizione del velo integrale negli spazi pubblici è prevista solo in Ticino e nel Canton San Gallo. Sarà ora esteso a livello nazionale, come già in Francia, Austria, Bulgaria, Belgio e Danimarca. La norma approvata prevede eccezioni al divieto di coprire il volto solo per i luoghi di culto e per motivi inerenti a salute, sicurezza, condizioni climatiche e usanze locali, come quelle legate al carnevale. Sono invece escluse eccezioni per le turiste, che in gran parte arrivano dai Paesi del Golfo.

Il sì al divieto, per quanto risicato, è una vittoria della destra conservatrice e del Comitato di Egerkingen, già sponsor del referendum col quale nel 2009 venne vietata la costruzione dei minareti, che hanno promosso la consultazione, ma alla quale hanno contribuito anche settori politicamente assai lontani come la sinistra laica, i movimenti femministi e le musulmane liberali che giudicano il velo integrale lesivo della dignità delle donne.

L’esito del voto sconfessa il governo, schierato contro l’iniziativa giudicata eccessiva, e indica una mobilitazione in favore del ‘sì’ ben oltre i simpatizzanti dell’Unione democratica di centro (Udc, destra conservatrice), principale forza politica del Paese che ha fatto campagna per la modifica costituzionale. Per i contrari all’iniziativa, benché burqa e niqab urtino la cultura elvetica, il divieto imposto dall’iniziativa era esagerato, soprattutto se si considera che nel Paese le donne che indossano il velo integrale è stimato in poche decine.

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Ostia, 14enne rifiuta di mettere il velo e viene picchiata dalla famiglia: trasferita in una struttura protetta dopo la denuncia

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Maltrattata ogni giorno in casa da mesi. Minacce e botte perché si rifiutava di indossare il velo. È quanto ha denunciato una ragazza 14enne, originaria del Bangladesh e residente con la famiglia a Ostia, nel quadrante sud di Roma. Sabato 13 novembre si è presentata dai carabinieri con i graffi sul volto raccontando quello che da mesi, ha denunciato di subire quotidianamente. La ragazza ha accusato la madre e il fratello di averla aggredita in diverse occasioni e anche minacciata di riportarla in Bangladesh. Due giorni fa l’ennesima lite degenerata quando il fratello 17enne l’avrebbe strattonata con forza facendola sbattere con la testa contro un mobile dell’appartamento. A quel punto è andata via di casa ed è corsa in caserma dove poco dopo l’ha raggiunta una insegnante della scuola che frequenta.

I carabinieri hanno raccolto la denuncia della ragazza e inviato un’informativa alla Procura ordinaria e a quella dei Minori. Le ipotesi di reato sono quelle di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali. La 14enne è stata medicata in ospedale e dimessa con 15 giorni di prognosi per un lieve trauma cranico ed escoriazioni. Quindi è stata condotta in una struttura protetta. La ragazza ha raccontato che le vessazioni e le aggressioni da parte del fratello e della madre 39enne avvenivano da mesi perché volevano imporle una rigida educazione contro la sua volontà. L’avrebbero anche minacciata di riportarla in Bangladesh se non avesse indossato il velo.

La fondazione del Fatto quotidiano, insieme alla onlus Trama di Terre finanzia borse di autonomia per sostenere donne sopravvissute alla violenza. Visita il sito è scopri come aiutarci: clicca qui

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Afghanistan, i Talebani impongono di nuovo il burqa alle donne: gli uomini “responsabili” rischiano il carcere in caso di violazioni

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Il regime islamista dei Talebani, che ha riconquistato il controllo dell’Afghanistan dalla scorsa estate dopo la ritirata occidentale, ha imposto l’uso obbligatorio del burqa per le donne nei luoghi pubblici. Con un decreto approvato dal “ministero per la Prevenzione del vizio e la Propagazione della virtù”, sotto questo aspetto la condizione femminile afghana torna indietro di trent’anni. “Le donne che non sono né troppo giovani né troppo anziane devono coprirsi il volto, tranne gli occhi, come indicato dalla Sharia, per evitare di provocare quando incontrano uomini che non siano mahram“, cioè parenti stretti, recita il decreto firmato dal leader supremo dei talebani, Haibatullah Akhunzada. Esse, prosegue, “devono indossare un chadori“, cioè quel tipo di burqa che copre l’intera figura, dalla testa ai piedi, lasciando solo intravvedere gli occhi dietro a una feritoia velata da una griglia, “in quanto è tradizionale e rispettoso”.

L’uomo “responsabile” di una donna che si rifiuti di rispettare le disposizioni rischia anche il carcere, ha spiegato in conferenza stampa il ministro ad interim Khalid Hanafi. In un primo momento è previsto che la cittadina “ribelle” riceva una visita di un rappresentante dei Talebani, che chiederanno un colloquio con il parente maschio più vicino alla donna, che sia il marito, il padre o il fratello. Il tutore maschio della donna può anche essere chiamato a presentarsi al ministero. Di fronte a un caso grave, l’uomo dovrà recarsi in tribunale e rischia di finire in carcere per tre giorni. Il Corano, il libro sacro dell’Islam, indica ai musulmani – uomini e donne – di vestirsi con modestia: per i maschi ciò implica la necessità di coprire l’area dall’ombelico al ginocchio, mentre le donne, in presenza di uomini con cui non sono parenti o sposate, possono far vedere soltanto il viso, le mani e i piedi.

“Siamo estremamente preoccupati dal fatto che si stiano erodendo i diritti e i progressi conquistati e goduti dalle donne e delle ragazze e afghane negli ultimi vent’anni”, fa sapere un portavoce del Dipartimento di Stato Usa, aggiungendo che Washington e i suoi partner internazionali “restano profondamente inquietati dai recenti passi dei talebani verso donne, comprese le restrizioni sull’educazione e sui viaggi”. “Obbligo di burqa imposto dai talebani. Il peso della nostra sconfitta”, scrive su Twitter il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni, accompagnando il messaggio con una foto di donne coperte dal burqa.

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Afghanistan, la sfida (di un giorno) ai Talebani delle croniste senza burqa: “Abbiamo resistito, ma ci avrebbero fatto cambiare lavoro”

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Apparire in televisione con il volto scoperto, senza il niqab o il burqa. La sfida lanciata dalle giornaliste dei principali canali televisivi afghani al regime islamista dei Talebani è durata un giorno. Oggi le conduttrici di TOLOnews, Ariana Television, Shamshad TV e 1TV sono andate in onda rispettando i limiti previsti dal decreto dello scorso 7 maggio, che impone l’uso obbligatorio del burqa per le donne nei luoghi pubblici.

In precedenza era sufficiente un foulard che coprisse i capelli e il Ministero per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio aveva ordinato alle conduttrici televisive di adeguarsi entro sabato. “Abbiamo resistito e ci siamo opposte all’uso del velo integrale”, ha dichiarato Sonia Niazi, presentatrice di TOLOnews. “Ma l’emittente ha subito pressioni, hanno detto che a qualsiasi presentatrice apparsa sullo schermo senza coprirsi il volto sarebbe stato dato un altro lavoro“, ha aggiunto.

Mohammad Sadeq Akif Mohajir, portavoce del Ministero per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio, ha dichiarato che le autorità non hanno intenzione di costringere le presentatrici a lasciare il loro lavoro: “Siamo felici che i canali abbiano esercitato correttamente la loro responsabilità“, ha sostenuto. Il documento ministeriale detta le linee di condotta anche per i media: “Le televisioni – si legge – devono evitare di mostrare soap opera e serie all’acqua di rose nelle quali recitino donne”.

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Afghanistan, la protesta delle donne di Kabul: chiedono di riaprire le scuole femminili. L’intervento dei miliziani blocca la marcia

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Decine di donne hanno protestato a Kabul chiedendo “pane, lavoro, libertà”. Sfidando i talebeni, hanno rivendicato il diritto all’istruzione femminile, dopo che il regime afghano ha disposto la chiusura delle scuole secondarie femminili nel paese. “L’istruzione è un mio diritto. Riaprite le scuole” gridano le manifestanti (si stima una cinquantina di persone), molte con il viso coperto come recentemente imposto dai fondamentalisti, tornati al potere in Afghanistan lo scorso agosto.

Le donne sono riuscite a manifestare marciando per alcune centinaia di metri, prima di disperdersi: i miliziani talebani, in abiti civili, raggiunte le dimostranti hanno sequestrato loro i cellulari per impedire che venisse filmata la protesta e hanno impedito loro di continuare a marciare nella capitale. A diffondere un video della manifestazione, il quotidiano afghano Hasht e Subh.

Meno di un mese fa, il regime dei Talebani ha imposto l’uso obbligatorio del burqa per le donne nei luoghi pubblici, con un decreto approvato dal “ministero per la Prevenzione del vizio e la Propagazione della virtù” che – sotto questo aspetto – ha riportato la condizione femminile afghana indietro di trent’anni. “Le donne che non sono né troppo giovani né troppo anziane devono coprirsi il volto, tranne gli occhi, come indicato dalla Sharia, per evitare di provocare quando incontrano uomini che non siano mahram”, cioè parenti stretti, recita il decreto firmato dal leader supremo dei talebani, Haibatullah Akhunzada.

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